Franco Miceli, ci offre qualche percentuale sulle sue possibilità di candidatura a sindaco di Palermo, in un’area civica riconducibile al centro sinistra?
“Ecco, ha detto bene: area civica, questo è il progetto, come ho spiegato nella mia nota. Più passa il tempo, più non è semplice e, francamente, non sono ottimista. Se non succede qualcosa nei prossimi giorni, mi sembra difficile che si possa concretizzare. Ma non sono abituato a dare percentuali”.
Il presidente nazionale dell’Ordine degli architetti, Franco Miceli, ha sempre avuto la chiarezza della lucidità. Una storia a sinistra, un passato di assessore con Orlando negli anni Novanta, una militanza storica: i suoi interventi nel palazzaccio Pci-Pds di corso Calatafimi erano sempre i più apprezzati. Ora lo cercano per guidare le truppe di un centrosinistra che arriva all’ordalia di Palermo 2022 in ordine sparso, come il centrodestra. Lui ha scritto una lettera garbata ma ferma, nei giorni scorsi: una rinuncia. Eppure, il centrosinistra continua a sperare. Le condizioni? ci vogliono autonomia e compattezza. Altrimenti…
Immagino che continuino a cercarla.
“Sì, i partiti mi stano cercando e mi cercano da parecchio tempo. La mia candidatura è civica ed esterna, è bene ripeterlo. Ci vuole unità e devo essere autonomo, sono le garanzie minime, perché un sindaco è espressione della città, non delle forze politiche. Poi ci sono altri temi”.
Quali?
“La qualità del programma e le liste che non possono essere dei semplici riempitivi dei partiti. Se qualcuno viene da me, è per ragioni precise, significa che conosce la mia identità e le mie idee, da cui non si prescinde. Se vieni da me, io posso darti queste cose, non altre”.
Ma il tempo stringe.
“Sì, la campagna elettorale si avvicina e i tempi sono davvero ristretti. Mi fa molto pensare il fatto che non ci sia ancora chiarezza. Siamo tutti d’accordo sull’urgenza, ma poi è come se prevalessero altre logiche. Non sono il candidato proprio perché al momento non esistono i requisiti affinché io lo sia”.
Un suo giudizio sull’ultima stagione dell’Orlandismo?
“Io sono stato assessore di Orlando negli anni Novanta fino al Duemila, oggi mi pare che, rispetto a quei tempi, ci sia uno scollamento tra l’amministrazione e la città, nei suoi diversi aspetti. Penso alla cultura, alla produttività, alle periferie. L’amministrazione non ha più saputo interpretare i bisogni dei palermitani, da qui è nato il conflitto”.
Le prime emergenze da affrontare?
“C’è solo l’imbarazzo della scelta, mi pare. Ci sono le carenze di una struttura amministrativa al lumicino, c’è il problema delle partecipate, c’è il bilancio, c’è la penuria di risorse… Sono tutte emergenze importanti”.
Cosa ne pensa, invece, dell’esperienza di Leoluca Orlando, nel suo complesso?
“Lui è stato un elemento importantissimo di rottura, l’esempio di un nuovo modello possibile rispetto allo schema degli anni Ottanta. Ma i nodi si sono aggrovigliati e non si è stati capaci di rispondere con le strategie opportune, continuando a vivere sugli allori. Non si è prodotta innovazione vera. Oggi quell’epopea si chiude, ma Palermo resta e bisogna aprire una pagina diversa, in un contesto, appunto, di gravissimi problemi”.
Scusi, ma, nel caso, chi glielo farebbe fare?
“Il rispetto per la città. Palermo ha bisogno di rispetto”.