Più che il 'Cervello', il cuore | Il regalo dei giovani medici - Live Sicilia

Più che il ‘Cervello’, il cuore | Il regalo dei giovani medici

Lo pneumocoro (con Vitogol)

Anche l'ospedale può essere un luogo di speranza. Come questa storia dimostra.

PALERMO- Più della pubblicità del pandoro al Viagra, o della bontà di cartapesta, questa foto ci riconcilia con il vero spirito del Natale. Più della plastica dei sogni da vendere sugli scaffali, più delle renne della slitta trattate a botulino, ci riconcilia con una parola che non diciamo più e, se la pronunciamo, non ci crediamo più. Una parola terribile perché chiede il tributo di fatica e orizzonti: “speranza”.

Questa foto mostra i medici specializzandi della seconda pneumologia dell’ospedale ‘Cervello’ di Palermo – con l’aggiunta di un paio di infermieri – la squadra del professore Mario Spatafora (che i lettori di Livesicilia ammirano con lo pseudonimo di Vitogol), mentre ‘improvvisano’, dopo tante prove, un concerto per i loro degenti. E la musica e i maestri non finiscono qui. Ci saranno altre esibizioni in altri reparti.

Chi lo ha provato almeno una volta sa che l’ospedale è per eccellenza il luogo che non è casa. Il grado di una patologia, il peso del destino che incombe, sul filo dei giorni, dei mesi, degli anni, è un elemento dello sconforto. Perdi gli abituali punti di riferimento. Ti ritrovi esiliato sopra un’isola deserta. Per quanto sia accogliente. Per quanto il calore di certi fantastici professionisti dell’impossibile tenti di rendere amichevole il contesto, la verità non sfugge. Non sei a casa. Il bagno è un condominio. La stanza è una comune. La notte è un passaggio oscuro di rantoli e di paure. Basta ascoltare ‘Gildo’, uno dei tanti capolavori di Gaber, per rintracciare lo scoramento e la solitudine di quei muri bianchi con il crocifisso.

L’ospedale è il posto in cui deflagra l’indisponibilità del corpo che conosce vari livelli, ma ha per tutti una radice comune. Non sei padrone di te stesso. C’è un ospite che ha preso possesso di una parte di te. La condizione di ostaggio ha un duplice significato. Si solidifica dall’interno, secondo i capricci di ciò che ti possiede. Si manifesta all’esterno nell’assenza di facce e consuetudini dissolte, prigioniere dell’occasione.

I ragazzi dello pneumocoro (così l’hanno ribattezzato, perché sono pure spiritosi oltre che bravi) hanno deciso di donarsi come esseri umani, hanno compreso l’essenza, guidati da un bravo maestro: nessuno è medico, nessuno può curare qualcuno, se non è anche un uomo. Lo stetoscopio e la cartella clinica servono per officiare il rito necessario della guarigione o della conservazione. La chitarra serve per scavalcare l’indisponibilità del corpo e arrivare dritti all’anima. E siccome il drago – ogni spaventoso drago – non si fugge e non si affronta, ma si cavalca, i ragazzi di Mario cavalcano con le note fino a giungere in contrade insondabili, in nascondigli di disperazione, per stanare la felicità rimasta in disparte sotto il peso degli eventi. E perfino loro, gli pneumocoristi, ricevono in cambio un silenzioso dono, un amuleto contro la solitudine che è la malattia incurabile di tutti.

Perciò noi gli diciamo grazie, per le parole che cantano, per le parole che scelgono quando devono annunciare una prognosi infausta, per la mitezza di ogni parola. Cantava Gaber: “Allora salti il piano se lo sai saltare. Ed entri in un altro reparto dell’amore”.


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