CATANIA – La mafia tenta di condizionare l’operato delle Pubbliche Amministrazioni. Molto del suo potere deriva dalla sua capacità di infiltrarsi nelle istituzioni. La Dia torna a parlare della discussa inchiesta della Commissione Regionale Antimafia su una serie di parentele sospette su alcuni consiglieri comunali eletti a Catania nelle ultime amministrative. Nomi e cognomi che hanno gettato pesanti ombre sull’assemblea cittadina di Palazzo degli Elefanti. Nella relazione sull’ultimo semestre 2015 la Dia pone l’accento sul lavoro dei deputati regionali “capitanati” da Nello Musumeci: “Quanto all’interesse di Cosa nostra nell’influenzare la gestione e l’amministrazione dei Vari Enti Locali – scrivono gli invetigatori – vale la pena richiamare la relazione dal titolo “Il Comune di Catania e la presenza di amministratori con rapporti di parentela con soggetti condannati per mafia”.
La Commissione Antimafia – riporta la relazione della Dia – ha valutato in ragione dei poteri attribuiti le posizioni dei singoli consiglieri da un punto di vista esclusivamente politico ed ha evidenziato “la debolezza con cui la politica riesce a formare anticorpi rispetto alla possibilita che soggetti di dubbia moralità possano incunearsi nei partiti e quindi nelle assemblee rappresentative”.
Istituzioni troppo deboli o volutamente cieche? Se fosse vera la prima ipotesi è urgente rinsaldare il muro protettivo dello Stato dalle incursioni della criminalità mafiosa, ma se invece le infiltrazioni nei centri del potere fossero il frutto di un’indifferenza pilotata dalla stessa mafia allora saremmo di fronte alla necessità di una bonifica viscerale che parta dall’interno. La speranza arriva però dagli uomini dello Stato che non si piegano ai voleri dei criminali. Purtroppo il “no alla mafia” porta alle intimidazioni e alla violenza. “Non sono mancati episodi di danneggiamento – si legge – che potrebbero essere interpretati come tentativi da parte della criminalità organizzata di condizionare l’operato della Pubblica Amministrazione”. La Dia si riferisce alle minacce al vicesindaco di Randazzo e agli spari nell’agenzia di scommesse del consigliere comunale di Maniace.
Resta l’estorsione l’attività illecita ‘tradizionale’ tra le consorterie mafiose, non solo di Cosa nostra catanese. Il “pizzo” è una delle prime fonti di reddito dei clan mafiosi che però si sono adoperati per differenziare i metodi estorsivi. Dal cavallo di ritorno alla ormai diffusa pratica del recupero crediti. Esattori “malandrini” che si sostituiscono agli enti di riscossione o agli avvocati per ottenere la restituzione di un prestito o il pagamento di un conto. La cassa delle cosche in molti casi viene “rifocillata” con i proventi dell’usura. In questo periodo di crisi economica sono molti (soprattutto imprenditori) che si rivolgono alla mafia per ottenere liquidità. Un cappio destinato a farli soffocare.
La Direzione Investigativa Antimafia ha riservato al racket delle estorsioni e dell’usura un’ampia parte della relazione semestrale dedicata ai fenomeni criminali nel territorio etneo. La Dia, in particolare, scrive che “non viene, inoltre, trascura la pratica dell’usura e dell’estorsione, che rappresentano per cosa nostra il modo più saldo e capillare per tenere salde le redini del territorio, come dimostrano recenti operazioni condotte a carico di esponenti dei Mazzei e dei Santapaola- Ercolano”.
Due sono in particolari i blitz che hanno permesso agli investigatori della Dia di tracciare queste conclusioni. La prima è l’inchiesta Time Out (del luglio 2015) che ha permesso di scardinare il clan Scalisi di Adrano, storici alleati della famiglia Laudani di Catania, che era riuscito a mettere sotto estorsione diverse attività commerciali e imprenditoriali. Questa operazione ha messo in luce la profonda omertà ancora presente nel territorio adranita, molte delle vittime infatti non hanno collaborato con la magistratura. Un segno, evidente, della sconfitta dello Stato che non riesce a predominare sull’illegalità.
L’altra inchiesta è quella della Guardia di Finanza denonimata “Capolinea” che ha disarcionato il potere criminale del gruppo della Stazione, frangia operativa dei Santapaola Ercolano che vede ai vertici Pippo Zucchero. L’indagine permise di scoprire oltre a una serie infinita di rapine anche un fiorente giro di estorsioni. Senza scrupoli i picciotti della Stazione che in alcuni casi – secondo le ipotesi della Finanza – sarebbero addirittura arrivati a sequestrare le vittime.
Fa ben comprendere l’evoluzione delle modalità estorsive praticate dalle cosche la retata “Nuova Famiglia”, che ha bloccato sul nascere la riorganizzazione verticistica della famiglia Mazzei, privata del leader Nuccio (finito al 41 bis dopo la cattura). A ottobre 2015 i finanzieri “nel far luce – scrive la Dia – su un articolato sistema associativo finalizzato alle estorsioni hanno ricostruito il nuovo organigramma della consorteria mafiosa dei Mazzei, individuando compiti e responsabilità dei reggenti della famiglia e delineando i rapporti di gerarchia tra i diversi appartenenti al clan”.
Nel sottobosco dell’usura vivono le stesse modalità di intimidazione e minaccia. “Con la stessa logica pervasiva viene praticata l’usura” – scrive, infatti, la Dia nella relazione. Questa “rappresenta uno dei maggiori canali di riciclaggio e finanziamento” e si pone (spesso) “in stretta connessione con il fenomeno estorsivo”.