Salvatore Massimo Fazio: Catania e il Premio Campiello VIDEO

Salvatore Massimo Fazio: da Catania al Premio Campiello VD

L'intervista a cuore aperto.

  • Sei un giornalista, uno scrittore, un pittore, un filosofo ed uno psicopedagogista nato a Catania nel ’74. Qual è il primo ricordo che hai della nostra città? Com’era Catania negli anni della tua adolescenza?

Gli anni della mia adolescenza sono gli anni 80 e tutto il pieno degli anni 80, proprio dall’anno 80 agli anni 88/89. Il primo ricordo che ho è quello del triangolo tra il portico del liceo scientifico Boggio Lera, la libreria Prampolini e via Santissima Trinità, che è proprio di fronte. 
Ma perché questo? 
Perché mia nonna abitava lì e mio padre mi ci portava sovente.
Trascorrevo giornate intere così. Poi ci si estendeva verso il Castello Ursino, e quello è l’immaginario che non è mai più tornato, perché c’era questa comunanza, si parla di più di quarant’anni fa, c’erano i parenti, c’erano gli amici, ci si conosceva in tanti in quei tratti di strada. Ci si avviava poi dove c’era il mercato, la pescheria, “a piscaria”, da noi detto, e questo qui mi torna. Ma ciò che mi torna più di ogni altra cosa è lo scendere verso sud, la fontana del Liotro, Eliodoro. La costruzione, l’architettonicità, l’aiuola, le papere, l’appiattimento, i contorni: come si è voluta sempre questa grande protezione del simbolo di Catania, difronte al municipio, il palazzo del Municipio, e, dall’altra prospettiva, la Basilica di Sant’Agata.

  • Hai vissuto ad Eastbourne, Bodø, Torino, Palermo, Firenze e Biella. Che ricordo conservi di queste città? Quanto sono vicine o lontane a Catania?

Ho vissuto da più parti e non  ho avuto problematicità e non ho pensato più volte ad andarmene, anche fuori dall’Italia, 130 chilometri a sud di Londra, ad Eastbourne, per quasi tre anni, a Bodo, in Norvegia, città che poi ho ritrovato a distanza di tantissimi anni perché si è incrociata calcisticamente con una squadra di calcio italiana, la Roma, squadra per la quale assieme al Catania io faccio il tifo.
Tra le altre cose ci tengo molto a precisarlo. Mentre per differenze culturali, oltre quelle climatiche, c’è un’apertura non indifferente che però, ho notato, era  più un’apertura sociale e di comunicazione, più del turista, che però magari poi rimaneva nei luoghi per lavorare, più in Inghilterra. Diversamente invece in Norvegia, questo villaggio che era polo a nord, molto ristretto, molto chiuso, poche persone, 20.000, compresi tutti i villaggetti. 
Mentre le città italiane dove ho vissuto, Palermo, perchè all’epoca psicologia, vicino a Catania, c’era solo a Palermo, Firenze, poi Torino e Biella, sono dei luoghi dove non c’è una connotazione culturale molto complessa e molto distante da quella nostra, anche perché il fenomeno multiculturale e della migrazione continua ad esserci.
Però ciò di cui mi sono accorto, delle differenze fra questi luoghi, sicuramente sono il senso di appartenenza di chi è del luogo e che vi è rimasto. 
Ma in una città come Torino, che è quella che conosco più di ogni altra perché l’ho vissuta per tantissimi anni, c’è solo un 20% di torinesi, il resto sono tutti emigrati da altre parti che vivono lì o figli di emigranti che però sentono forte l’appartenenza ai luoghi di provenienza dei genitori.
Forse il tasso di socialità è molto alto nei piccoli ceppi delinquenziali e in quelli là nella costruzione, nel tentativo di costruire qualcosa che avvicini al benessere della polis che può dare la polis, la bellezza artistica, culturale, per le dominazioni, per ogni luogo. 

  • Nel 2002 ti sei laureato in Filosofia presso la Facoltà di Catania e nel 2007 in Pedagogia Clinica presso la facoltà di Firenze. Quanto hanno inciso i  tuoi studi nel tuo percorso di vita?

Dopo che andai a Palermo a studiare psicologia, poi mi ritirai dopo tre anni, rientrai a Catania, svolsi il servizio di leva e poi scelsi un indirizzo a orientamento umanistico, oggi si direbbe così, ma ai tempi era quello filosofico-storico, e poi nel 2002 conseguo questa laurea e mi rimane un pugno di mosche tra le mani.
Ma forse perché non avevo intenzione, forse la strada più aperta era quella dell’insegnamento, ma in verità io non sapevo neanche come fare per  ottenere la possibilità di un dottorato, non sapevo chiedere, non chiedevo. 
Poi andai via, andai a Firenze.
Iniziavanono questi nuovi ordinamenti, ed a Firenze c’era questo master specialistico, che poi divenne corso di laurea, in Pedagogia Clinica, che ha influito non poco a rendermi sempre più anti accademico, ma non anti accademico nel senso di abbandonare l’università, ne ho conseguito due di lauree e ne conseguirò un’altra a maggio,  quanto perché mi sono accorto che nulla cambiava da un punto di vista accademico. Ciò che avvenne nel ‘67 in Francia, che si sviluppò in Italia e nel mondo, con la rivoluzione sessuale, la libertà, l’abbattimento dei baroni accademici, che comandavano, che era tutta una rivoluzione fatta, citando Pasolini, da altri personaggi che poi altro non erano che i figli della borghesia stessa, non ha cambiato nulla. 
Se c’è la possibilità di segnalare, di aiutare, di supportare, di sostenere qualcuno, non cambia da università ad università. Sinceramente me ne frego se c’è chi mi dice che è laureato al San Raffaele con tot professore, perché appare in tv o da altre parti, tutto è uguale: l’uomo è pronto al compromesso e lo accetterà sempre. 

  • Nel 2016 pubblichi con Bonfirraro .“Regressione suicida dell’abbandono disperato di Emil Cioran e Manlio Sgalambro”, chiudendo di fatto la trilogia della nuova tesi filosofica del nichilismo cognitivo, da te fondata. Su cosa si basa questa tesi?

Nel 2016 esco con questo trattato che è una estrapolazione di 22 pagine da 200 e passa della mia tesi.
Però ho avuto la possibilità di essere molto più libero, perché è un saggio, ed il titolo è una provocazione, la locuzione “regressione suicida”, perché è un suicidarsi dalle dipendenze intellettuali, fisiche, morali, di elementi di sostanze di altro diverso. 
Io dovevo liberarmi dalla dipendenza intellettuale delle letture delle opere di Manlio Sgalambro, principalmente, ed in parte di quelle di Emil Cioran, anche se Cioran è rimasto sempre abbastanza affascinante ed ha molto influenzato poi un pò tutto quello che io ho fatto, anche l’azione psico pedagogica. 
Non ci dimentichiamo cosa fu scritto da Cioran, quella depressione creativa che non è vero che funziona  “chi è depresso crea di più”, no,  c’è del metodo. 
La questione di quest’opera, che completa la trilogia di quello che viene definito “nichilismo cognitivo”, in verità inizialmente venne definito come un “nichilismo speculativo”, ad un certo punto ci fu anche chi lo definì come un “nichilismo faziesco”, e non “faziano”, e poi ci fu un giornalista catanese, molto attento e lettore, che lo definì simpaticamente, forse, io dico così per carità, “nichilismo cognitivo”. 
In verità c’era una cognitività in questo nichilismo, questa perdita, abbandono, dei valori che va a perdersi direttamente dal momento della nascita.
Molte volte ci si coniuga, viene al mondo il nascituro, e viene lasciato poi alle intemperie di due persone che lo hanno messo al mondo, perché non riescono a risistemare il quadro del concetto familiare.
Ora questa posizione potrebbe sembrare molto conservatrice, se non addirittura arcaica, ma il riferimento, ed è riportato in tutte e tre le opere, non è tanto a questo, ma è alla facilità e alla superficialità con la quale gli esseri umani dipendono, e attraverso la dipendenza dicono di innamorarsi e di procreare, di mettere al mondo figlio. 
Io amo la droga, io amo i tatuaggi, io amo questa particolare tipologia di acqua, incontro una persona, mi frequento e sono pronto a metter su famiglia. In verità non metto su famiglia, ma creo il nascituro, con tutte le difficoltà e i problemi di oggi. 
Insomma è una questione pedagogica che tocca più chi procrea. Bisognerebbe stare molto attenti e fare riflessioni su sè stessi.

  • Nel 2021 pubblichi con Arkadia, all’interno della prestigiosa collana Eclypse, “Il tornello dei dilegi”, entrato nella ristretta rosa dei soli sessanta libri in concorso per l’anno successivo allo storico premio Campiello. Cosa ha rappresentato per te confrontarti col genere del romanzo?

A novembre del 2021 mi confronto col genere del romanzo. E’ la prima volta, grazie  all’insistenza anche di una persona importantissima per me, tolti i miei familiari, quelli più stretti ovviamente, che è Piero Lipera, questo mio lettore, amico, cugino, fraterno, fratello, che insisteva sulla questione di scrivere di narrativa. Parlai col mio agente e mi ha chiesto se avevo materiale.
Ne avevo tanto, avevo tanti pizzini conservati, tanti appunti, e da lì tirai fuori quello che divenne un romanzo, “Il tornello dei dileggi”, che approdò fra quei pochi titoli che si candidarono per il Campiello.
Ha rappresentato tantissimo perché provenendo solo dalla saggistica, dalla speculazione filosofica, dall’indagine psicogena, scrivere di narrativa a parole poteva sembrare qualcosa di semplice, invece no, non è così. 
Ho avuto anche molto imbarazzo, però arrivare a quel punto è stato una sorpresa non indifferente: una grande emozione ed un grande terrore. 
Io quando mi trovo innanzi a delle verità, ecco qui entriamo nel l’ermeneutica, temo sempre, divento sempre più pavido, ho sempre più paura, ma anche perché nel momento in cui una verità emerge ed è quella, e dunque non è un’interpretazione di un concetto che deve diventare verità, rischi sempre di essere dileggiato.

  • Sul finire del 2000 nasce a Catania la tua agenzia di spettacoli: FMONADE. Nove anni dopo, il 2 di gennaio per l’esattezza, porti le LILIES ON MARS (band appena nata ed ex MAB, le ragazze sarde che nel 2007 accompagnarono Battiato per la registrazione dell’album “IL VUOTO”) al pub Chakra Lounge di Catania per una tua produzione. In quella occasione vi esibite in una lettura tu e Cantarella e riesci a convincere Manlio Sgalambro ad aprire l’evento recitando una sua poesia. In prima fila, dalle foto di quella memorabile serata, si notano Franco Battiato e Pippo Russo. Ci racconti come avvenne quel fortunato contatto?

Il fortunato contatto che ricordo è quello del 2009. Il 2 gennaio è una data importante. Le LILIES ON MARS,ex Mab, perché si erano scisse, erano in quattro, la band sarda che accompagnò Franco Battiato per la registrazione dell’album “Il vuoto” e anche per il tour successivo, vennero a suonare a Catania, con l’agenzia  Fmonade, che era la mia, fondata da me. 
Collaboravo molto con Alessio Cantarella, che è la memoria storica di Manlio Sgalambro e decisi e riuscì a farle approdare a Catania. 
In quell’occasione prosegue il professore Sgalambro chiedendo se aveva piacere nel fare un’apertura con un riding di una delle sue poesie, forse la più nota: “Amici, non ci sono amici, dice un vecchio proverbio greco, ma che mi importa dei greci”, qualcosa del genere, non la ricordo bene.
Fu memorabile quella serata ed in prima fila c’erano Pippo Russo e Franco Battiato ad assistere. 
Ovviamente Franco assistiva alle sue musiciste ed al suo amico più caro, Manlio Sgalambro.
Ma la cosa che più colpisce fu  recitare, fare riding, io con Alessio Cantarella, ed a seguire il Professore, e fu qualcosa di straordinario, emozionante. 
Poi gli aneddoti più simpatici furono che ad un certo punto, quando dovevano suonare le LILIES ON MARS tutto saltò, non si riuscì a suonare, quindi si persero altri 40 minuti. 
Ricordo poi la grande emozione nel sapere che il Professore Sgalambro entrava in un pub e vedere questi personaggi in prima fila: La grande confusione, il biglietto ad un costo molto ridotto ed il 2 di gennaio, del 2009…
Fu un’emozione grande. 
Feci altri due spettacoli con l’Agenzia Fmonade e poi chiusi tutto.

  • Emilie Michel Cioran diceva che “Non è grazie al genio ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che smettiamo di essere una marionetta.” Quanto ha dovuto soffrire Salvatore Massimo Fazio per diventare un “Uomo”?

Ancora sono in sofferenza, quindi non so se già la maturità dell’uomo è stata raggiunta, a questo punto. Mi piace che Cioran comunque è stato un capostipite sia per il linguaggio lirico, il lirismo cioraniano in filosofia e in letteratura che ha reso fruibile la sua scrittura a tutti, e per il concetto di sofferenza che diventa determinante per la comprensione del diventare uomo, uomo nel trovare una posizione personalissima, non una posizione sociale nel mondo. Emil Cioran, in quello che lui chiamava il suo ufficio, che era il Caffè de la Paix, si incrociava spesso con Jean-Paul Sartre. Lo stesso Sartre un giorno gli chiese “Ma perché non stai un po’ con noi?”, era lì con altri, compresa la moglie. 
E lui gli rispose “Se non te ne vai, ti sferra un pugno!”. Ciò sta a definire che la propria identità nella comunitas, nella società viene a definirsi nel momento in cui assorbi tutta la sofferenza e riesci ad esperirla.

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI