Samot: parole, storie, sguardi | "Così diamo speranza a chi soffre" - Live Sicilia

Samot: parole, storie, sguardi | “Così diamo speranza a chi soffre”

Una delle squadre della Samot

I buoni. Qui si parla della grande paura di tutti e di chi l'affronta con coraggio. Ecco chi sono coloro che aiutano gli altri "a scendere dal treno, portando la valigia". Sapendo che un giorno... (nella foto una 'squadra' di operatori Samot)

PALERMO–  A mille ce n’è di storie che gli operatori della Samot – la comunità che si prende cura dei malati oncologici terminali – potrebbero raccontare. E centomila sguardi e diecimila ultime parole, sospesi e pronunciate sul letto di un moribondo. Arriveranno, tra un po’, con discrezione e con la gratitudine dovuta a chi cammina sul sentiero della grande paura di tutti.

Ecco, intanto, i numeri, per dare un’idea della gigantesca azione portata avanti. Samot dall’Ottantasette, anno della sua nascita, a oggi (le statistiche si fermano ovviamente al 2015) ha accompagnato e assistito 23.380 persone. L’attenzione verso la cultura delle cure palliative, che permettono un trapasso il più dignitoso possibile, attutendo dolore e angoscia, cresce: 1009 erano i pazienti Samot nel 2010, 2140 sono stati nel 2015.

Nell’ultimo anno, quasi trentamila (29.438) le visite dei medici a casa, nelle roccaforti di Palermo (27.171), Trapani (2010), Agrigento (90) Ragusa (167). Poi ci sono gli infermieri, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali che lavorano sul territorio siciliano: per un totale di 106.434 interventi domiciliari. Un esercito di trentotto dottori in servizio, in rotazione frenetica e continua, trentanove infermieri, diciotto psicologi, dodici assistenti sociali, dodici volontari. Per tutte le informazioni su come accedere al servizio basta cliccare su www.samotonlus.it.

Fu Giorgio Trizzinotra gli altri incarichi, direttore della rete regionale di cure palliative – ad avere l’intuizione, a carissimo prezzo, negli anni Ottanta. “Ero un giovane medico – racconta – vidi morire mio padre tra atroci sofferenze, senza la possibilità di offrirgli conforto. La medicina era indietro, non si parlava di sollievo del malato terminale, né di terapia del dolore, di nulla. Chiesi alla dottoressa che era accanto a papà un po’ di Voltaren per diminuire lo strazio. Lei mi rispose: ‘No, potrebbe fargli male’. Meglio specificarlo subito: l’attività che facciamo non è solo tecnica per offrire un imprescindibile lenimento fisico. Noi prendiamo la persona in carico, fornendo scienza e coscienza, costruendo una relazione psicologica che è essenziale”.

Il dottore Trizzino ricorda: “Andai a Milano, dopo la morte di papà, ed entrai in contatto col mondo delle cure palliative. Tornai a Palermo con l’idea di realizzare qualcosa. E nacque Samot, grazie al sostegno dell’allora presidente del Banco di Sicilia, Guido Savagnone. Organizzammo una presentazione in Cattedrale; avrebbe dovuto svolgersi in una sala dedicata ai convegni, ma tale e tanta era la gente che il cardinale Pappalardo decise di far aprire le porte della chiesa, per accogliere tutti coloro che erano accorsi. La sensibilità stava cambiando. Ora, la popolazione ha le antenne dritte, conosce Samot e le altre realtà in campo. Vuole sapere. La politica, no. E’ sorda. Magari incontri quel tale onorevole a cui esponi i tuoi problemi, le difficoltà, i disagi. Lui largheggia in sorrisi e pacche sulle spalle. Un minuto dopo ti ha già dimenticato”.

A mille ce n’è di storie che si potrebbero narrare: “Non scorderò mai Giovanni, che aveva trent’anni ed era condannato. Un ragazzo bellissimo, intelligente. Mi ha lasciato in dono una scultura, un surf che solca il mare di Mondello di cui era innamorato. Restai accanto a lui fino all’ultimo istante. L’avevo promesso”.

Roberto Garofalo, medico palliativista della Asp, per conto della quale lavora Samot, si inserisce sul filo della narrazione: “Gli sguardi di chi se ne va non sono tutti uguali. Ho trovato anche occhi sorridenti e grati e, certo, altri che portavano il carico di una esperienza umana completa come la morte. Si impara tanto, col mio impegno. Si impara, per esempio, che un uomo ricchissimo e potentissimo, che ha costruito la sua esistenza sui legami economici e di potere, negli istanti supremi può rimanere solo, privo di familiari e amici, circondato dagli operatori che lo curano. Allora capisce che la sua vita comincia con la sua morte, quando finalmente la verità umana viene a galla. Io ho la memoria piena di facce, di mani, di carezze: rammento una ragazza che aveva paura di morire, come è normale che sia. Parlammo a lungo, per giorni e giorni. Lei riuscì ad andarsene senza più l’ansia che l’attanagliava all’inizio della malattia. Un altro ragazzo, invece, non volle saperne niente. Entrai nella sua stanza, mi voltò le spalle e mi fece ‘ciao ciao’ con la mano”.

“Il mio lavoro – continua il dottore Garofalo – ha modificato il rapporto con la mia morte ventura. Ed è stata una cosa buona. Ho accettato i miei limiti. Ho capito che sono mortale anche io e che sto solo aiutando a scendere dal treno qualcuno prima di me, reggendogli la valigia, ma poi toccherà a me, con i miei pesi”. Frammenti preziosi, maturati nel campo di un’esperienza professionale che si sovrappongono – involontariamente e delicatamente – ai versi di un grande poeta, Giorgio Caproni: “Congedo alla sapienza e congedo all’amore. Congedo anche alla religione. Ormai sono a destinazione (…) Scendo. Buon proseguimento”.

E un po’ poeti è necessario esserlo, forse, a contatto con l’estremo. “Purché non si instauri – conclude Roberto Garofalo – quello che io definisco: il teatro della falsità. La persona che hai davanti deve essere sorretta nella consapevolezza. Deve sapere quello che sta succedendo. E deve potere sperare”. Sebbene la speranza risulti difficile, quando non c’è guarigione e tuttavia scaturisce, egualmente, dalla carezza del non abbandono.

Cosa ci vuole per diventare operatori Samot? “Conta molto l’attitudine – spiega Tania Piccione che coordina la rete degli interventi –. Va benissimo, se sei un tecnico esperto. Però devi essere soprattutto empatico e in grado di costruire una relazione complicatissima e di gestirla”.

Perché non è semplice trovarsi sotto il bombardamento di domande tipiche di certe storie e di certi letti in penombra, quesiti scritti apposta per Dio, come: “Dottore, come sarà la mia morte?”. La risposta è sempre onesta: “Non lo so. So solo che farò di tutto per renderla serena e che sarò qui, accanto a te”.


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