Vita, l'imprenditore e il flirt come passepartout per Cosa nostra - Live Sicilia

Vita, l’imprenditore e il flirt come passepartout per Cosa nostra

Chi è il costruttore Francesco Isca, raggiunto da un provvedimento di confisca da 12 milioni

TRAPANI – Una relazione sentimentale come passepartout per entrare dentro Cosa nostra. È il primo elemento che emerge dal provvedimento di confisca che ha colpito l’imprenditore Francesco Isca, 63 anni, originario di Vita.

Un legame importante quello con Paola Anna Maria Crimi, sorella e cognata di capi mafia Salvatore Crimi e Calogero Musso, e figlia del defunto boss Nanai Crimi, il cui nome tra gli anni ’70 e ’80 figurava nelle indagini coordinate dal magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto, assassinato dalla mafia nel gennaio 1983. Non solo, anche in quelle sui rapporti tra criminalità altoatesina e mafia siciliana delle quali a Trento si occupava il giudice istruttore Carlo Palermo, prima del suo trasferimento nel 1985 a Trapani, dove sarà oggetto di un grave attentato, sfociato nella tragica strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985. Il magistrato uscì illeso e a morire furono una donna, Barbara Rizzo, ed i suoi gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta di sei anni, dilaniati dall’autobomba piazzata sulla strada percorsa dalla blindata del magistrato.

Il rapporto tra Isca e la famiglia Crimi, secondo il racconto del collaboratore di giustizia Nicolò Nicolosi, permise a Isca di passare dall’essere un piccolo imprenditore della zona a un soggetto di rilievo nel campo della produzione e gestione della vendita di calcestruzzo. “Non era un rapporto di semplice protezione – ha messo a verbale Nicolosi – ma veniva avvantaggiato”. A lavorare alle dipendenze di Isca erano il figlio e la nuora di Calogero Musso, e periodicamente “nonostante la interruzione della relazione con Anna Crimi, Isca – ha aggiunto Nicolosi – continuava a passare alla donna somme di denaro”.

Circostanza che Nicolosi ha detto di avere appreso dalla stessa Crimi, con la quale anch’egli intrattenne una relazione dopo la decisione di Isca, nel 2004, di troncare la sua per ragioni di opportunità, dopo che la prefettura nei confronti delle sue aziende aveva emesso un paio di interdittive. Sentita dai giudici la donna ha però negato di avere mai ricevuto denaro da Isca. Agli investigatori della Dia, Crimi ha spiegato che il rapporto con Isca era travagliato e ostacolato dal padre di lei, tanto che per un periodo i due andarono ad abitare lontano dalla Sicilia, in Valle d’Aosta. Altri testimoni, in particolare un ex socio di Isca, Antonio Craparotta, ha raccontato una versione diversa: la donna avrebbe preteso denaro dal suo ex amante, “minacciandolo di estrometterlo dalle sue imprese perché erano state fatte con i soldi della famiglia Crimi”.

Un imprenditore che non era “vittima” della pressione mafiosa, ma era organico a Cosa nostra, tanto da gestire anche alcune estorsioni. Così Isca è stato definito alla Procura antimafia di Palermo dall’imprenditore trapanese Nino Birrittella: conoscenze le sue che derivavano dalle confidenze ricevute dal capo mafia trapanese Francesco Pace. “Isca – ha detto Birrittella, ritenuto pienamente attendibile in decine di processi, a cominciare da quello che ha portato alla condanna a sei anni dell’ex senatore Tonino D’Alì, per concorso esterno in associazione mafiosa – aveva una posizione rilevante nella famiglia mafiosa di Calatafimi… nel gennaio del 1999 si occupò della estorsione ai danni della ditta Edilgand di Calatafimi che stava costruendo alloggi in cooperativa a Trapani, all’epoca Cosa nostra chiedeva 1 milione di lire per ogni appartamento”.

La ditta subì un attentato incendiario per ordine del mafioso trapanese Pietro Virga, figlio dell’ergastolano Vincenzo, “quando il titolare dell’impresa, Dino Gandolfo, mi chiese aiuto – ha raccontato Birrittella – Virga mi disse che per la messa a posto doveva mettersi d’accordo con il suo paesano, con Francesco Isca”.

Tra gli episodi citati nel provvedimento di confisca, anche quello della partecipazione di Isca alla realizzazione di un parco eolico tra Salemi e Vita, in contrada Ranchibilotto, un cantiere sotto il controllo del capo mafia di Castelvetrano, all’epoca latitante, Matteo Messina Denaro, attraverso il cugino, Giovanni Filardo. Un parco eolico riconducibile a due imprenditori più volte indicati in rapporti con la criminalità organizzata, l’alcamese Vito Nicastri, e l’avellinese Oreste Vigorito. Un affare da 24 milioni di euro. E a partecipare risultarono essere tutte imprese legate a Cosa nostra.


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