“Covid, ero dato per morto, mia moglie fece voto a Sant'Agata” -

“Covid, ero dato per morto, mia moglie fece voto a Sant’Agata”

Quattro mesi di ricovero. L'atleta Maurizio Jack Giustolisi racconta il suo ritorno alla vita
CORONAVIRUS, CATANIA
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CATANIA – “Il mio corpo, dopo due mesi di covid, non dava alcun segno, i medici chiamarono mia moglie e le dissero che avrebbero staccato la macchina che sostituiva i miei polmoni, nel senso che sarei morto spontaneamente. Lei corse verso la Cattedrale, con la mia coccarda di devoto, pregò e fece un voto a Sant’Agata. Io non ricordo nulla, mi hanno detto solo che ho mosso una mano e poi sono tornato alla vita”.

Sulla sinistra, Maurizio Jack Giustolisi durante una gara.

Le lacrime non sempre possono bastare per esprimere la profondità di una storia. Quella di Maurizio Jack Giustolisi, dipendente St e atleta di 45 anni colpito dal Covid, ha conquistato il cuore della città di Catania, non solo perché tutti lo considerano, da sempre, una persona speciale. Ma perché la sua battaglia contro il virus è diventata un segno di speranza per una comunità che ha registrato, nell’ultimo anno, oltre 1.500 decessi. Per Jack, così lo chiamano gli amici, è scattata una gara a donare il plasma, grazie alla sensibilità del sindacalista Angelo Mazzeo, suo fraterno amico e migliaia di catanesi hanno seguito l’evoluzione della sua ospedalizzazione, tra alti e bassi, tra piccole gioie e grandi sofferenze. Maurizio Jack parte da lontano, dall’ultima corsa, l’ultima maratona, prima del ricovero in terapia intensiva.

Maurizio Jack Giustolisi sulla sedia a rotelle. Inizia il suo percorso verso la normalità

Come è iniziato tutto?

“Inizio a sentirmi male un mercoledì, a ottobre vado a Venezia, per una maratona sospesa. Torno a Catania, decido di correre la maratona facendo quattro volte il percorso che va da piazza Europa ad Acicastello.

Il giorno dopo mi sento affaticato. La maratona la completo con molta stanchezza, ma non posso immaginare quello che sta per accadere. Ci metto 4 ore e mezza a percorrere i 42 chilometri, mezz’ora in più del mio tempo normale”.

Siamo al famoso 10 novembre

“Sì, mi sale la febbre, parlo col mio medico e mi consiglia di riposare, non penso mai che possa essere il virus la causa di tutto. Nei giorni successivi continuo a prendere la tachipirina, ma la febbre non scende e mi sento sempre più affaticato”.

Il medico cosa fa?

“Mi consiglia di comprare un saturimetro. Il sabato ho 82 di saturazione, col 118 arrivo al Garibaldi quasi in fin di vita, mi attaccano ai polmoni artificiali e sto due giorni

Dall’uno novembre, giorno della maratona, al 10 ti eri allenato?

“Sì, avevo il virus addosso, mettevo i polmoni sotto sforzo e probabilmente lo avrò agevolato, facendo scendere le difese immunitarie”

Che succede in ospedale?

“Mi spostano nel reparto di pneumologia, penso di stare meglio, ma dopo due giorni il primario mi dice che mi avrebbero dovuto portare in terapia intensiva perché i miei polmoni si stavano sciogliendo”.

Come reagisci?

“Mi cade il mondo addosso, mi dicono che ho la polmonite bilaterale e non sanno se sarei potuto uscire con i miei piedi dall’ospedale. Chiamo mia moglie, le do determinate istruzioni e le dico che forse non sarei più tornato a casa”.

In terapia intensiva indossi la maschera e poi?

“Mi addormento e non ricordo più alcunché”.

Non ricordi niente?

“Mi sveglio il 5 gennaio, quasi due mesi dopo, dopo essere stato sedato e intubato. Subisco anche un intervento chirurgico. Pochi giorni dopo mi trasferiscono al Policlinico, nel reparto speciale Ecmo, con la respirazione extracorporea, ma un ragazzo era morto prima del mio arrivo. In quel reparto c’è un tecnico che correva con me, mi riconosce e si prende cura di me, insieme a tutto il team.

Cosa accade nel reparto della speranza?

Vengo sottoposto all’ossigenazione extracorporea, non do segni di vita per 20 giorni. A quel punto il primario chiama mia moglie e le dice che purtroppo avrebbero staccato i macchinari perché sarei sicuramente deceduto. Mia moglie corre in cattedrale, va a pregare e fa un voto a Sant’Agata. Porta con sé la mia coccarda di devoto, poi la consegna ai medici, che la mettono accanto a me. Il giorno dopo la chiamano e le dicono che muovo la mano. Due giorni dopo staccano l’Ecmo”.

Cosa ti ricordi, del periodo che precede il risveglio?

“Facevo una vita parallela, pensavo di uscire con mia moglie, ma mi sentivo pesante e dicevo di voler andare a casa.

Ma non era ancora finito il tuo calvario, giusto?

“No. Il 28 gennaio arrivo al San Marco, con il casco dell’ossigeno. Appena lo tolgono la mia saturazione precipita a 20 e divento nero. Per la terza volta muoio.

Un infermiere fa allontanare tutti e mi pratica la ventilazione manuale, mi collegano i polmoni artificiali e vengo intubato per la terza volta. Dopo qualche giorno riprendo conoscenza e mi fanno la tracheotomia”.

Cosa accade ai tuoi compagni di stanza in ospedale?

“Al San Marco vedo morire 13 persone, entrano, vengono intubati e muoiono. Io divento il compagno con cui parlare. Diventato lo psicologo dei medici, anche per loro è difficile, si sentono spesso in colpa e impotenti di fronte a un virus terribile”.

Come hai vissuto, quest’anno, la festa di Sant’Agata?

“Il 5 febbraio ho vissuto la messa dell’Aurora e Angelo Mazzeo mi ha fatto uno dei regali più belli della mia vita, ha indossato il mio sacco, un gesto meraviglioso. Non mi basteranno due vite per ringraziare tutte le persone, per quello che hanno fatto per me e Angelo ha fatto tantissimo. Come non mi dimenticherò mai dei numerosi medici e infermieri che sono diventati la mia famiglia. Sono vivo grazie a loro”.

Adesso come stai?

I polmoni sono guariti, ma stando paralizzato tre mesi, si sono degradate le articolazioni. L’essere atleta, con i miei muscoli abituati a un lavoro incessante, ha comportato che il cervello li disattivasse. Sulle gambe ho solo le ossa e la pelle. Sto cercando di ricostruire il muscolo”

Ancora non puoi camminare?

“Per mettermi sulla sedia a rotelle mi prendono col sollevatore e faccio fisioterapia, sto facendo infiltrazioni alle anche. Ciascun movimento è difficilissimo e dolorosissimo.

Sarà un processo lungo, l’ho pagata a caro prezzo, detto dai medici, nessun altro è sopravvissuto a quello che ho passato io, ma voglio tornare presto dalla mia famiglia, ricominciare a correre e mangiare tutte le lasagne che mi hanno promesso”.


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