Falcone, le ultime offese di Messina Denaro e i misteri di sempre

Falcone, le offese di Messina Denaro e i misteri di sempre

Pentiti fuori tempo massimo e la verità si allontana

PALERMO – Ci sono una novità e i misteri di sempre. Si celebra il trentunesimo anniversario della strage di Capaci. L’ultimo dei mandanti dell’eccidio, condannato all’ergastolo, ha smesso di essere latitante. E cioè quel Matteo Messina Denaro che, esattamente un anno fa, il 23 maggio 2022, diceva sprezzante: “E io qua bloccato con le quattro gomme a terra, cioè a terra nel senso non di bucate ma sull’asfalto: non si muove, per le commemorazioni di sta minchia“.

Era incolonnato nel traffico in autostrada mentre inviava il messaggio (ASCOLTA L’AUDIO) audio in una chat di gruppo con alcune donne conosciute nel corso delle sedute di chemioterapia a Palermo. La stessa autostrada che per suo ordine fu imbottita di tritolo e fatta saltare in aria assieme ai corpi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Due anni fa la Corte di Assise di Caltanissetta lo ha condannato all’ergastolo. Era stato “il primo a partecipare ai tentativi di uccidere Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nemici storici di Cosa nostra”. Il capomafia trapanese mostrò “totale dedizione” ai corleonesi e alla follia che si spinse oltre ogni limite dell’orrore. Messina Denaro “è il frutto marcio di ciò che fu Totò Riina, è stato un membro della commissione regionale, ha partecipato alla deliberazione di morte e all’esecuzione di fatti eccellenti collegati a quella decisione”.

La strategia delle bombe fu ideata a partire dall’autunno del 1991, quando cominciò a delinearsi che le accuse del Maxiprocesso erano solide e avrebbero retto fino in Cassazione. Per Cosa Nostra, vista per la prima volta nel suo insieme, sarebbe stata una batosta. I boss ne discussero per la prima volta ad Enna. Sarebbe stato Messina Denaro ad aiutare Riina “a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno. Matteo Messina Denaro serve proprio a questo, a stanare e uccidere i riottosi». Il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò le condanne del Maxiprocesso. Riina poteva contare su un gruppo di persone fidate che chiamava “supercosa», ai quali affidò il compito di organizzare a Roma l’attentato a Falcone. Poi, però cambiò idea, per altro dopo avere criticato il modo di comportarsi dei killer che se la spassavano nella Capitale: il giudice, e nemico numero uno, doveva morire a Capaci.

Dallo scorso gennaio, ed è la novità principale rispetto alle precedenti commemorazioni, Messina Denaro è in carcere. Le responsabilità interne a Cosa Nostra sono state tutte ricostruite. Resta aperto l’eterno capitolo sui mandanti esterni alle stragi di mafia. Tutte le piste vanno battute, nessun dettaglio, neppure il più insignificante, va tralasciato. Non si può, però, dimenticare che in nome della ricerca della verità si è finito per dare credito a teorie sconclusionate, molte delle quali raccontate fuori tempo massimo da collaboratori di giustizia smemorati.

Secondo Pietro Riggio, uno degli ultimi pentiti a battere un colpo, a premere il telecomando che azionò il tritolo usato per la strage di Capaci non fu Giovanni Brusca. Il boia di San Giuseppe Jato credeva di essere stato lui, ma fu qualcun altro, un misterioso uomo dei servizi segreti deviati. L’ex agente della polizia penitenziaria ha aggiunto che fra gli attentatori di Capaci c’era l’ex poliziotto Giovanni Peluso conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e sfuggito per decenni ai radar investigativi. Peluso non era da solo, ma in compagnia di un agente segreto, libico e donna.

A parlare di una donna del mistero era stato un altro pentito fuori tempo massimo, il calabrese Nino Lo Giudice, che per decenni, nonostante il suo pentimento, ha taciuto la circostanza che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato l’ex poliziotto Giovanni Aiello, alias faccia da mostro, personaggio su cui si è concentrato l’imbuto dei misteri. E si era pure dimenticato che faccia da mostro aveva partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie incinta Ida Castelluccio nel 1989.

Maurizio Avola, killer catanese di 80 omicidi, fra cui quello del giornalista Pippo Fava, ha raccontato che un personaggio misterioso accompagnava Messina Denaro quel giorno di febbraio-marzo del 1992 in cui si incontrarono a Catania. I corleonesi dovevano andare ad uccidere Claudio Martelli e Giovanni Falcone a Roma e avevano bisogno di armi. Avola aveva preparato due kalashinkov, un bazooka, due bombe a mano due calibro novex21. Poi Totò Riina decise di agire a Capaci. Dell’uomo misterioso Avola nulla sa, se non che “era sfrontato, altro un metro e settanta”, ma soprattutto “vestito elegante, con occhiali da sole”.

Un pentito messinese, Carmelo D’Amico, ha raccontato di avere saputo che “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ’92, di Capaci e di via D’Amelio”. Glielo aveva raccontato in carcere il potente capomafia palermitano Nino Rotolo. Ne raccolse le confidenze tra il 2012 e il 2014. D’Amico aveva tagliato fuori l’argomento dai suoi verbali per paura di essere ammazzato dai servizi segreti in carcere.

A volte ad alimentare il mistero sono pure uomini in divisa, come l’ex brigadiere Walter Giustini, un tempo in servizio a Palermo e oggi in pensione, secondo cui la strage di Capaci poteva essere evitata. Come? Se avessero dato retta a Giustini avrebbero arrestato Totò Riina prima dell’attentato di Capaci. Un suo confidente, Alberto Lo Cicero, lo aveva messo sulla strada giusta. Si sarebbe scoperto pure chi avrebbe agito nell’ombra, supportando i mafiosi o addirittura servendosi di loro. E cioè Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e poi cofondatore dell’organizzazione di destra Ordine nuovo. Secondo il brigadiere, Delle Chiaie si recò “un paio di volte a Capaci” prima della strage. Di tutto ciò non c’è traccia negli atti ufficiali, compresi i verbali di Lo Cicero resi davanti all’autorità giudiziaria e in presenza dello stesso Giustini. Nulla, né di Delle Chiaie, né del possibile arresto di Riina.

Ed è seguendo queste ed altre piste che la verità si allontana, e la dolorosa pagina delle stragi si popola di fantasmi. Una cosa è certa: al commando inviato a Roma, di cui faceva parte Messina Denaro, fu ordinato di rientrare in Sicilia. Riina decise che Falcone sarebbe morto a Palermo con un attentato dalle modalità terroristiche. Perché? Messina Denaro conosce la risposta e sa pure perché la strategia della tensione proseguì anche nel 1993 dopo l’arresto di Riina, ma non c’è alcun segnale della sua intenzione di rivelarlo.


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