Da qualche parte a Palermo c’è un marciapiede che sembra colpito da una bombetta atomica. Definirlo sconnesso sarebbe una pietosa bugia. In effetti è devastato, dall’erosione del tempo, dalle radici degli alberi, dall’incuria. Si narra che non sia mai stato spazzato e che, in loco, possano rintracciarsi i santini di Leoluca Orlando, quando si candidò all’asilo. Anche allora – si può immaginarlo senza malizia – era, forse, lo stesso di oggi, nell’abilità di schivare gli strali. Se la maestra lo rimbrottava per via di un’ipotetica mancanza, la risposta doveva essere immancabilmente: “Non è stata colpa mia”.
Lo sventurato marciapiede somiglia a un percorso di guerra. Le sue asperità soccorrono appena i giovani calciatori che affinano l’arte del dribbling, con il Super Santos al piede, per scansare gli ostacoli. Ma questa è la città che nessuno vede, almeno tra i regnanti e rispettivi serventi al pezzo.
Da qualche parte a Palermo c’è un cantiere incompiuto che raffigura una compiuta simbologia dell’immutabilità. Gli automobilisti lo sfiorano, ormai, con una riverenza che ha deposto l’ira. Ma questa è la città che nessuno conosce, almeno tra i colti e progressisti.
Da qualche parte a Palermo c’è una periferia smagrita nei disservizi, c’è una zona residenziale abbandonata, c’è un cumulo di munnizza, c’è un autobus con le sospensioni ammaccate, c’è un ingorgo, c’è un fetore, c’è un albero disseccato, c’è un uomo affranto, con le mani alla bocca: c’è qualcosa che racconta una profonda pena.
Da qualche parte a Palermo c’è una Palermo senza speranza che boccheggia, soffocata da problemi che non migliorano perché nessuno se ne occupa. Ma questa è la città che nessuno vede, almeno tra gli altolocati e sensibili. E coloro che la osservano, che ne parlano, che gridano qualcosa a riguardo, vengono immediatamente retrocessi al rango di panormosauri rozzissimi; ignoranti che si fermano alla volgarità delle cose necessarie, non essendo all’altezza delle cose bellissime, meravigliosamente offerte.
E poi c’è la città appariscente, sventolata come una cartolina della rinascita. Abbiamo addosso ancora la polvere d’oro di un Festino magnifico, curato da Lollo Franco e da Letizia Battaglia. Abbiamo nelle orecchie l’urlo del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, quel “Viva Palermo e Santa Rosalia!” che ha chiamato a raccolta l’orgoglio e l’amore di un popolo. Abbiamo ascoltato l’omelia dell’arcivescovo Lorefice sull’intreccio di destini e responsabilità comuni che ci uniscono e apprezzato una maglietta rossa sventolata nel nome dell’umanità. Né sarebbe generoso dimenticare il titolo di Capitale della Cultura o gli sfarzi di ‘Manifesta’: riconoscimenti di cui, a buon diritto, vantarsi.
Ai margini, però, ostinata nella sua persistenza, ecco quella città che nessuno vede, almeno tra aristocratici e cortigiani, di cui qualcuno dovrebbe prendersi cura, oltre la semplice narrazione di un rinascimento dal respiro diseguale.
Ci vorrebbe uno slancio, qualcosa, un miracolo, per riunificare ciò che appare separato. Sarebbe necessaria una visione – termine carissimo all’attuale primo cittadino – che, invece, non c’è. Palazzo delle Aquile – in una porzione equamente suddivisa tra il suo inquilino più illustre, la squadra da lui scelta, l’assemblea di eletti che comprende un’opposizione battagliera ma con poche idee di sostanza – appare incatenato a un sortilegio di contrapposti immobilismi con vista esclusiva su rimpasti e incarichi. Si usano splendori e macerie in un gioco al massacro di retoriche e contro-retoriche che serviranno soltanto come inutili rendiconti finali nei personalissimi libri dei torti e delle ragioni di ognuno. Intanto, chi si occupa del resto?
Forse, dobbiamo rassegnarci, tra marciapiedi distrutti e rarefazioni culturali, alla nostra veste di palermitani dimezzati. La città che non si vede e la città che vuole farsi vedere non saranno mai la stessa città.