PALERMO – Calogero Mannino non le ha mandate a dire. A dispetto dell’immagine da pacato pensionato è sceso da casa con il suo abito grigio per attaccare a testa bassa. Contro tutto e tutti. Soprattutto contro i pubblici ministeri. Ha scaricato la collera accumulata per quella grossa fetta di vita trascorsa a difendersi nel processo e dal processo. Per 22 dei suoi 77 anni è stato un colluso con la mafia prima e uno che scendeva a patti con i boss poi. Per l’opinione pubblica, alimentata dai dibattiti televisivi, è stato l’appestato. L’uomo nero di una stagione politica da picconare.
Non è un caso che Mannino abbia rivolto il suo primo “pensiero” ad Antonio Ingroia, a cui ha addebitato “la dimensione politica del processo”. Il suo nome è stato appena volutamente accennato. Giusto per dire che Ingroia, oggi approdato nell’affollato mondo del sottogoverno regionale, “è fuggito”. Era lui, però, il vero bersaglio della critica di Mannino perché Ingroia è stato l’anima dell’indagine sulla trattativa Stato mafia fino a quando non ha scelto di fare la “rivoluzione civile” che Mannino chiama fuga. E così il ruolo di coordinatore del pool dei pm del processo è passato a Vittorio Teresi, una presenza costante nella vita del Mannino imputato.
Passi pure il ribaltamento del principio di non colpevolezza garantito a tutti gli imputati. Poniamo il caso che Calogero Mannino, nel processo d’appello a cui la Procura potrebbe dare il via impugnando l’assoluzione, sia riconosciuto colpevole, resta il fatto che, al lordo del più che probabile nuovo dibattimento, 22 anni vissuti sotto accusa sono troppi. È vero, sono il frutto di processi diversi, ma non per questo possono essere giustificabili.
Ecco perché la durezza delle parole di Mannino, anche qualora non se non condividesse il merito, non coglie di sorpresa. Se l’è presa con i pm. Li ha accusati di essersi “accaniti” contro di lui. Di avere perseguito in maniera ostinata – ha detto – la ricerca di prove che non c’erano. Ha puntato il dito contro uno dei pubblici ministeri, Antonino Di Matteo, sostenendo che la sua assoluzione abbia risparmiato al pm un errore simile a quello già commesso. Il riferimento è al processo istruito anni fa a Caltanissetta, anche ma non solo, da Di Matteo sulla base delle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, il pentito delle patacche. Nel 2011 dopo un ventennio di galera ingiusta un gruppo di ergastolani è stato scarcerato.
Nelle durissime parole di Mannino c’era tutta la rabbia accumulata in 22 anni. Tutto è iniziato nel febbraio del 1994, quando la Procura di Palermo gli notificò un avviso di garanzia per mafia. Un anno dopo finì in carcere. Ci resterà, fra cella e domiciliari, complessivamente per 23 mesi. Nel 2001 Mannino fu assolto con la vecchia formula dubitativa. Due anni dopo la Corte d’appello ribaltò il verdetto e lo condannò 5 anni e 4 mesi di carcere. Una condanna poi annullata con rinvio dalla Cassazione. Al termine dei nuovi processi arrivò l’assoluzione definitiva.
Ironia della sorte, il pm di primo grado e il procuratore generale di secondo era la stessa persona: Vittorio Teresi, il magistrato che Mannino avrebbe incrociato anche nel processo sulla trattativa quando subentrò a Ingroia. Chiuso il capitolo del concorso esterno in associazione mafiosa, infatti, nel 2012 addosso a Mannino cadde la tegola della nuova inchiesta. L’ex ministro aveva fretta di chiudere la faccenda. Scelse di farsi processare in abbreviato. Non poteva immaginare che sarebbe stato uno dei processi abbreviati più lunghi della storia giudiziaria del nostro Paese.
Il dibattimento iniziò a dicembre 2013, ma nel marzo precedente i suoi legali – gli avvocati Grazia Volo, Nino Caleca, Carlo Federico Grosso e Marcello Montalbano – avevano già chiesto il rito alternativo. Già allora il giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, contestualmente alla decisione di mandare sotto processo tutti gli altri imputati, avrebbe potuto decidere le sorti processuali di Mannino. Ed invece la sentenza è arrivata ieri. Seguita dall’esplosione della collera di un uomo, sceso da casa in abito grigio e con l’apparente aria da pensionato, per attaccare a testa bassa e rivendicare l’impegno antimafia non solo suo, ma della Dc di cui è stato uno dei massimi esponenti.