I pentiti della pagnotta - Live Sicilia

I pentiti della pagnotta

I collaboratori vengono citati uno dopo l'altro. La loro memoria si riaccende e i processi si popolano di fantasmi. Come quello sulla trattativa Stato-mafia che si sta celebrando in Corte d'assise a Palermo. Da Il Foglio oggi in edicola.

PALERMO – Bisogna solo portare pazienza. La risposta del pentito di turno arriverà e sarà confortante. Calda come un abbraccio. Sarà sufficiente una mezza parola. Basterà intravedere una sola ombra per alimentare il sospetto. Sono i collaboratori di giustizia a guidare la danza di tanti processi.

Una danza che si popola di morti, personaggi senza volto e canaglie dei servizi segreti. Più fantasmi ci sono e meglio è. Di tanto in tanto ci si deve affacciare al balcone del corso principale per ricordare a tutti che un pentito è per sempre. Bisogna guadagnarsela la pagnotta. Altro che 180 giorni, tanti quanti sono quelli previsti per raccontare tutto ciò che si conosce sulla Cosa nostra che si ripudia. Quale migliore occasione per rispondere “presente” del processo sulla trattativa Stato-mafia che si sta celebrando in Corte d’assise a Palermo. I collaboratori vengono citati, uno dopo l’altro, collegati da località segrete, con i volti camuffati o infrattati dietro un paravento dal grande effetto scenico. Tirano in ballo i politici, quelli cattivi, quelli che reggevano i fili e trattavano con i boss sanguinari. Loro lo sanno, e come se lo sanno, che trattavano. Peccato, però, che nonostante siano collaboratori da un pezzo, degli “indicibili accordi” nulla avevano riferito fino al giorno della convocazione. Perché? Per paura o per la visita degli uomini neri dei servizi inviati nelle carceri per zittirli.

La buonanima di Salvatore Cancemi, il primo componente della Commissione di Cosa nostra a pentirsi, la lezione l’aveva impartita un decennio e mezzo fa. “La mia mente è come una vite arrugginita che si svita lentamente”, diceva. Sì, ma quanto lentamente. A volte serve una vita intera. Prendete Francesco Di Carlo, ex boss di Altofonte. Si è pentito nel ’96, ma continua ad affacciarsi al balcone. L’ultima boccata di aria fresca l’ha respirata una manciata di giorni fa. Di Carlo vive da uomo libero, dopo avere pagato il conto con la giustizia, tra Londra e il Nord Italia. Ci racconta pure della sua casa vista mare. Non se la passa malaccio, ma vuoi mettere la vertigine del balcone. Il punto è che se ogni tanto non t’affacci, non sei nessuno. Sei fuori dai giochi delle comparsate televisive, dei dibattiti e dei libri su ciò che si è stato e che non ora si è più, perché è sempre meglio riservarsi qualcosa di inedito piuttosto che mettere tutto a verbale. Insomma, non si può mica rischiare di essere semplicemente un ex boss che si è pentito, uno a cui lo Stato ha riconosciuto i benefici che spettano ai collaboratori di giustizia, uno a cui è stata concessa una seconda possibilità con una nuova identità e in una località segreta. In pratica, un signor nessuno.

E così, ogni tanto, bisogna battere un colpo. In una recentissima intervista al Fatto Quotidiano, sollecitato dal cronista, Di Carlo lo ammette pure: “Non ho detto ancora tutto? In ballo ci sono trent’anni di storia di mafia, se poi uno dice quello che ho detto io bisogna procedere per gradi. La verità non tutti vogliono conoscerla. A domanda rispondo, ma so anche che il sacco vuoto non si regge in piedi”. Procedere per gradi: Cancemi ha fatto scuola. Parentesi: a domanda risponde, quella del pentito Di Carlo ricorda da vicino un’espressione utilizzata dal testimone (non gradisce la parola dichiarante) Massimo Ciancimino: “Io non ho mai collaborato con i magistrati, ho solo risposto alle domande. Purtroppo viviamo in una cultura omertosa dove rispondere alle domande equivale a collaborare”. Così disse il figlio di don Vito e così ha ripetuto le volte in cui gli veniva contestata la rateizzazione dei suoi ricordi. Chiusa la parentesi.

Fra le cose che sovvengono oggi alla memoria di Di Carlo c’è la storia di un misterioso incontro in una villa del Circeo dove, secondo il suo collega – nel senso che si è pentito pure lui – Gioacchino La Barbera si sarebbero decise le stragi di Capaci e via D’ Amelio un decennio prima che il tritolo dilaniasse giudici e agenti di scorta. Non è andata proprio così, rimprovera Di Carlo. La Barbera non può essere preciso. Lui sì, Di Carlo sì, perché lui c’era: “Ricordo che accompagnai da Roma un paio di persone, salimmo lungo un sentiero di montagna, ma dal promontorio si vedeva il mare”. In quel luogo misterioso e bucolico non si parlò di stragi, ma di “un golpe”. Ed eccoli i fantasmi. Di Carlo precisa che non c’era Giulio Andreotti (morto), “però c’erano Nino Salvo (morto) e l’avvocato Vito Guarrasi (morto), il capo del Sismi Giuseppe Santovito (morto) e un politico, forse un ministro, di cui non ricordo il nome”. Peccato, senza identità non possiamo soddisfare la nostra curiosità, non sapremo mai se il “forse ministro” sia passato, pure lui, a migliore o peggiore vita (dipende dai punti di vista). Nel frattempo Di Carlo pianta la sua bandierina smentendo La Barbera, il killer di Giovanni Falcone capace di dire tutto e il contrario di tutto. È riuscito nella fantozziana missione di smentire se stesso. Rispondendo alle domande di una giornalista de La Repubblica, La Barbera disse lo scorso settembre che dietro l’uccisione di Giovanni Falcone “non c’è solo la mafia”, ma probabilmente anche “un uomo dei servizi segreti”. Ma come, proprio lui che, testimoniando al processo sulla strage del Rapido 904, mise a verbale che “ogni strage e ogni delitto eccellente, nell’ambiente di Cosa nostra si diceva sempre che erano stati i servizi segreti per deviare, ma sono solo dicerie. Anche per Capaci all’interno di Cosa nostra, fra chi non aveva partecipato alla strage, si disse che erano stati i servizi segreti. E invece eravamo stati noi”. Non contento La Barbera ha fatto la smentita della smentita, rimangiandosi davanti ai magistrati di Caltanissetta quanto dichiarato nell’intervista. E così i pm nisseni hanno ritenuto inutile convocarlo come testimone al nuovo processo sulla strage di Capaci.

Di La Barbera in La Barbera. Il racconto di Di Carlo, per la verità non è il solo a farlo, annovera nell’elenco dei fantasmi un altro morto. Anzi ‘il morto’, quell’Arnaldo La Barbera che guidava il pool “Falcone e Borsellino” che indagò sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Con lui Di Carlo non è stato tenero. Se La Barbera non fosse stato stroncato da un tumore nel 2002, probabilmente le parole del pentito di Altofonte gli sarebbero scivolate addosso, impegnato come sarebbe stato in faccende più delicate. Dal 2010 su di lui, post mortem, pesa il sospetto della colpa delle colpe, e cioè di avere orchestrato il depistaggio delle indagini sugli eccidi di mafia. A cominciare dalle dichiarazioni del pataccaro dei pataccari, quel Vincenzo Scarantino, il picciottello della Guadagna che era parso ai più l’uomo della Provvidenza tanto che le sue dichiarazioni servirono per condannare all’ergastolo una serie di innocenti a cui, solo nel 2011, lo Stato ha dovuto chiedere scusa. Non è stato La Barbera a chiederne la condanna e neppure ad emettere le sentenze ma pubblici ministeri, procuratori generali e giudici di tre gradi di giudizio. E dire che il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta fra il ’92 e il ’94 per indagare sulle stragi, avvisò che “si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra (oggi in pensione), ai colleghi Anna Palma (tornata pochi giorni fa a Palermo come sostituto procuratore generale) e Nino Di Matteo (pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia), lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo”. Bisogna ammettere che anche lo Stato avrebbe meritato di essere processato per gli errori commessi. Errori evidenti, anche ammettendo che siano stati commessi per la sola fretta di consegnare un colpevole all’opinione pubblica, oppure che i depistatori siano stati bravi a fare il lavoro sporco. Questa, però, è un’altra storia che la Procura di Caltanissetta sta cercando di riscrivere. Innanzitutto, ha tirato fuori dal carcere sei innocenti condannati all’ergastolo per l’eccidio di via D’Amelio. Siamo giunti al processo quater che potrebbe essere seguito dal quinques. Nelle scorse settimane la Procura nissena aveva chiesto l’archiviazione per Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, poliziotti del pool di La Barbera, sotto inchiesta per i depistaggi. Il gip, però, ha respinto la richiesta. Un atto dovuto dal momento che una delle persone offese, Natale Gambino, tra gli innocenti condannati al fine pena mai, ha fatto opposizione all’istanza dei pm.

Ai pentiti, siano essi colpevoli o innocenti, i morti piacciono. E sul conto di La Barbera hanno detto le peggiori nefandezze. Compreso Vito Galatolo, rampollo dello storico clan dell’Acquasanta tra gli ultimi a saltare il fosso. Le sue dichiarazioni sono confluite nel “Borsellino quater” nella parte in cui parla del boss Filippo Graviano e della frase – “siamo coperti” – che il capomafia di Brancaccio avrebbe pronunciato dopo la strage di Capaci e poco prima che scoppiasse l’infermo in via D’Amelio. Dipinge La Barbera, come uno sbirro in combutta con i mafiosi. Peggio, “nel libro paga” dei potenti Madonia. Galatolo ha dalla sua la forza dell’attualità del suo pentimento, visto che è appena trascorso il limite dei 180 giorni e i pm di Palermo stanno scrivendo il verbale che raccoglie tutte le sue dichiarazioni. Altri, come Di Carlo, invece, hanno bisogno di affacciarsi al balcone di cui sopra. Altri ancora hanno rischiato di cadere giù. Come Giovanni Brusca che ha tentato di “salvare” il suo tesoretto segreto, sfuggito per decenni alla mannaia della confisca. Ad agosto gli hanno tolto alcuni immobili a Palermo che valgono un milione di euro. Perché il boia di San Giuseppe Jato, collaboratore di giustizia dal 1996 con tanto di permessi premio per uscire dal carcere, ha sempre tenuto dei contatti con il mondo esterno. In cella gli trovarono pure una pendrive con le indicazioni per le ristrutturazioni di una casa in paese. Il suo programma di protezione traballò, ma alla fine fu perdonato.

Il punto è che i pentiti passano per mestiere dal balcone al bancone dei testimoni dei processi su stragi, annessi e connessi aperti in giro per l’Italia. Processi che diventano il luogo ideale per la loro danza dei fantasmi. Quello sulla Trattativa fra boss e pezzi dello Stato, in corso a Palermo, obbliga i pubblici ministeri e tutte le parti processuali a misurarsi con avvenimenti misteriosi, intricati e risalenti nel tempo. A ricordacelo interviene il fattore morte. Ad inizio estate, ad esempio, è venuto a mancare Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale. Aveva 93 anni. Nel 1993, quando era ministro della Giustizia, decise di non rinnovare il 41 bis (il regime di carcere duro) a 300 boss mafiosi. “Non ci fu alcun retroscena in quella scelta, decisi io, in solitudine”, ha sempre sostenuto Conso. Secondo i pm di Palermo, invece, sarebbe la prova che lo Stato trattò con la mafia. Processo difficile quello sulla Trattativa che tanti dibattiti ha suscitato in punta di diritto. Langue da un po’, soprattutto dal punto di vista mediatico. Era partito con la corsa ai posti a sedere dei cronisti di mezzo mondo, ora i riflettori si sono spenti. È un dibattimento in cui di pentiti ne sono passati parecchi. Compreso Di Carlo che raccontò in udienza, manco a dirlo, della misteriosa visita di tre uomini dei servizi segreti. La Barbera, “un certo Giovanni, forse dell’esercito, e una persona inglese” lo andarono a trovare in carcere, alla fine degli anni Ottanta, a Londra, dove era detenuto per droga. Volevano un contatto con i boss palermitani. E Di Carlo non lo ha raccontato solo a Palermo. Il suo tour della pagnotta ha fatto tappa anche a Milano, al processo sulla strage di via Palestro dove nel 1993 un’autobomba uccise cinque persone davanti al Padiglione d’arte contemporanea.

Al processo di Palermo si è fatto vivo di recente anche un pentito messinese, Carmelo D’Amico. Lui le cose le conosce (“Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ‘92, di Capaci e di via D’Amelio”) perché gliele avrebbe raccontate in carcere il potente capomafia Nino Rotolo. Si confidò con lui tra il 2012 e il 2014. Non ne ha parlato prima per paura di essere ammazzato dai servizi in carcere proprio come come sarebbe già avvenuto per altri. Inutile chiedergli “chi, dove e quando” perché il collaboratore tace. E che dire di un altro pentito storico, Gaetano Grado, che per mestiere ammazzava la gente. Non morivano solo i nemici. Una volta ordinò il delitto di tre ragazzi colpevoli di avere risposto in malo modo a un boss infastidito dal chiasso che facevano al ristorante. Grado è stato ancora più esplicito: “Non parlo di politica. Non è ancora il momento. Ci tengo a campare ancora qualche annetto. Non è riuscito ad ammazzarmi Totò Riina, figuriamoci se voglio farmi ammazzare dallo Stato”.

A questo punto la domanda sorge spontanea: forse è anche per la danza dei fantasmi che i processi durano una vita. A conti fatti, a ventitré anni dalle bombe e dopo avere celebrato una dozzina di dibattimenti, siamo di fronte ad una verità giudiziaria parziale, nel caso di Capaci, e ad una che, per via D’Amelio, vale quanto la carta straccia. Non servono neppure le marche da bollo. Visto che ai pentiti dobbiamo garantire la pagnotta, che almeno se la guadagnino fino in fondo. Ci raccontino tutto e soprattutto subito.

 


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