La sfida di Silvana Saguto ai pm | "Trovate le prove per condannarmi" - Live Sicilia

La sfida di Silvana Saguto ai pm | “Trovate le prove per condannarmi”

Silvana Saguto

Magistrati, poliziotti, finanzieri: in un'agenda tutti i nomi di chi segnalava gli amministratori

PALERMO – “Io non mangio i giudici”, dice Silvana Saguto in uno dei passaggi chiave della sua deposizione in aula. Una frase per ribadire la collegialità delle decisioni che le vengono contestate.

Tutto ciò che veniva stabilito dal Tribunale per le Misure di prevenzione di Palermo, dalla nomina degli amministratori giudiziari alle liquidazioni dei compensi, non era imposto dall’ex presidente, ma deciso da più giudici: “Eravamo in tre, non ero sola”. Saguto, sotto processo a Caltanissetta assieme ad atri imputati per corruzione, falso e abuso d’ufficio, risponde per ore alle domande del suo avvocato, Ninni Reina, e poi dei pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti.

Ha un tono fermo. A volte risponde ai pm in maniera stizzita. Si mostra sicura di sé, tanto da capovolgere i ruoli: è lei a porre le domande invece di limitarsi a rispondere. In un’occasione il presidente del Tribunale, Andrea Catalano, la richiama all’ordine. Si capisce che non vedeva l’ora, al di là di alcune dichiarazioni spontanee e qualche intervista, di difendersi “perché finora ho subito un processo mediatico”.

Saguto tenta di fare rientrare nell’alveo della legalità ogni cosa che al contrario, secondo l’accusa, ha manifestato la peggiore gestione affaristica della cosa pubblica. Nella legalità, ma anche – e soprattutto – nella normalità. Era normale, ad esempio, che a Saguto arrivassero continue richieste di lavoro. Il magistrato, oggi radiato ma con un ricorso pendente davanti al Csm, tira fuori dalla borsa un’agenda blu. Ecco la prova che in tantissimi si rivolgevano a lei per un incarico nella gestione dei beni sequestrati. Non è l’agenda dell’infamia, come Saguto tiene a precisare. Non è il “così fan tutti” usato per difendere l’indifendibile. Piuttosto è la controprova che l’imputata si gioca per sostenere che non ci fosse nulla di anomalo nelle nomine.

Anche magistrati, poliziotti, finanzieri e avvocati le segnalavano i nominativi di parenti e amici da fare lavorare. Non solo era normale che accadesse, ma pure auspicabile: meglio scegliere persone con parentele che offrivano garanzie di onestà piuttosto che affidarsi a degli sconosciuti. Saguto, in una pausa del processo, fa alcuni nomi di magistrati che avrebbero contribuito a ingrossare l’agenda: “Vietti (dopo che lasciò il Csm), Pignatone, Alcamo, Licata, Ingargiola (dopo che andò in pensione), Binenti e tanti altri assieme ad agenti della Dia, della finanza e della questura”.

“Noi tutti davamo incarichi e consulenze”, dice con la sguardo rivolto al giudice. In quel “noi” c’è la voglia di sentirsi ancora parte della magistratura, nonostante il processo e la radiazione perché avrebbe disonorato la toga. I bigliettini da visita con il nome di chi faceva la segnalazione saranno ordinati e consegnati al Tribunale. Diventeranno materiale da valutare al momento del giudizio.

Saguto rivendica l’appartenenza a un sistema, ma spoglia la parola “sistema” da ogni accezione negativa. Non le appare distorto. Le regole erano queste e davano piena discrezionalità al giudice nelle sue scelte. E poi, aggiunge, “non li sequestravo io i beni”. Semmai il suo collegio accoglieva o meno le richieste dei pubblici ministeri, della Dia e del questore.

Nel sistema c’erano delle regole di ingaggio, come in tutte le guerre. Perché innanzitutto Saguto rivendica di avere combattuto una guerra contro la mafia. L’ex presidente snocciola le tappe della sua carriera. Tra i suoi maestri cita “Chinnici, Falcone e Borsellino”. Ci sono dei passaggi auto celebrativi, in cui  si riconosce il merito di avere inciso nella strategia di attacco ai beni che puzzano di mafia, di averlo fatto prima di altri, di avere contribuito a fare schizzare la percentuale dei sequestri ad un più 400 per cento. È così che, a suo dire, si fa la vera lotta alla mafia. Giusta era stata l’intuizione di “Leonardo Sciascia”, anch’egli citato in aula.

Tutto regolare, dunque. E le tangenti pagate, secondo l’accusa, da Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari, per ottenere sempre più incarichi e ricche parcelle? Anche in questo caso Saguto difende le proprie scelte. Cappellano era il migliore sulla piazza, garantiva una squadra di professionisti in grado di attivarsi bene e subito, e i compensi erano in linea con la media.

Ad un certo punto Saguto lancia una sfida. Ricorda che spetta ai pubblici ministeri e al Tribunale trovare e valutare le prove del passaggio di denaro per condannarla, visto che sostiene di non avere mai ricevuto soldi da Cappellano o da altri: “Perché non hanno preso il trolley dove secondo l’accusa c’erano i soldi che Cappellano mi stava portando a casa?”

Neppure la collaborazione del marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma, anch’egli imputato, con lo studio di Cappellano Seminara, scandita da incarichi su incarichi, sarebbe sintomo di un patto illecito e corruttivo. Saguto ripete ancora una volta lo schema difensivo. Altri giudici “Tona, Alcamo e Grillo” in altri tribunali, non a Palermo, hanno nominato Caramma senza storcere il naso di fronte alla “qualifica di coniuge” di Saguto.

Tutto regolare, dunque. Anche ciò che agli occhi dell’accusa e dell’opinione pubblica appare come un sistema distorto, un intreccio illecito di interessi privati nella gestione della cosa pubblica, uno scandalo di sprechi e favori. L’imputato sembra a tratti smarrire la sua sicurezza quando i pm le leggono le intercettazioni in cui parlava di soldi e incarichi. Nelle sue risposte spuntano i “non ricordo” e i “non so”, a cui fa seguire, però, la certezza che “parlavamo di documenti”.

Minimizza i riferimenti alle cassette di frutta che riceveva in regalo dagli amministratori, al maxi conto da 18 mila euro accumulato in un supermercato in amministrazione giudiziaria e saldato solo una volta che era scoppiato lo scandalo, all’uso disinvolto della scorta per sbrigare faccende personali (erano gli agenti a dirle di non muoversi per ragioni di sicurezza), alla laurea del figlio con una tesi confezionata da un prof e amministratore (“Mi bastava sbobinare una mia lezione”).

Il ragionamento di Saguto approda ad una tesi complottista, accennata alla fine della deposizione: “Io ho dato la vita per la magistratura, sapendo di rischiare e non avendo la minima paura di perdere la mia di vita perché è messo in conto. Vi posso dire che Ciancimino Massimo nelle intercettazioni agli atti del processo Brancato, recentemente confiscato, dice ‘a quella dobbiamo farla saltare dalla sezione'”. Non è finita. Si torna in aula mercoledì prossimo. Sarà una nuova sfida.

 


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