PALERMO – Massimo Ciancimino si ripresenta in aula e le tribune dell’aula bunker dell’Ucciardone tornano a riempirsi come non si vedeva da tempo. Merito, soprattutto, degli studenti di un paio di scuole superiori palermitane. In ordine sparso si vede qualche rappresentante delle associazioni antimafia e delle agende rosse (non c’è Salvatore Borsellino), ma senza sventolio. Qualche cronista in più nei banchi destinati agli avvocati. Niente a che vedere con lo schieramento massiccio di telecamere dei giorni migliori, quando la stella del figlio di don Vito brillava nello star system dell’antimafia.
Ci ha messo parecchio del suo Ciancimino jr per spegnere i riflettori e fare vacillare la sua credibilità collezionando inchieste per calunnia. Per il resto Massimo ci riprova, iniziando a riproporre – già domani tornerà in aula – davanti ai giudici della Corte d’assise temi già sentiti, aggiungendo qua e là qualche aneddoto che ripesca nella memoria. La sua versione – più asciutta, dimessa e lontana dai toni del passato – non cambia: fu testimone oculare del patto fra Cosa nostra e istituzioni. E all’udienza di oggi ricostruisce le fasi embrionali di quella che negli annali della cronaca giudiziaria è chiamata Trattativa.
L’imputato di concorso esterno in associazione mafiosa e testimone chiave dell’accusa risponde alle domande del pubblico ministero Antonino Di Matteo che sul banco dei pm siede accanto al procuratore aggiunto Vittorio Teresi e agli altri sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Ciancimino jr parte dai suoi rapporti inizialmente freddi con il padre che, ad un certo punto, nel 1999, avrebbe deciso di aprirsi con il figlio, rendendolo partecipe delle sue confidenze e testimone degli indicibili accordi. Fu allora che Massimo capì che l’anonimo ingegnere Lo Verde che frequentava casa sua, “in via Sciuti a Palermo” e “in via San Sebastianello a Roma”, altro non era che Bernardo Provenzano: “Alla fine degli anni Settanta, accompagnavo mio padre dal barbiere. Ho visto su un giornale l’identikit di Provenzano e ho preso contezza di chi fosse. Da una risposta anche pesante di mio padre ho capito la sua vera identità. Mio padre si fermò per strada e mi mise in guardia: ‘Ricordati che da questa situazione non si può salvare nessuno”.
Quell’episodio fu il punto di non ritorno per Cianicimino jr, fino ad allora obbligato a restare in disparte sull’uscio di casa o in portineria, mentre Provenzano incontrava il padre. Il padrino corleonese era uno di famiglia. Andavano tutti insieme “a mangiare la pizza a Baida e San Martino” fin dalle fine degli anni Settanta. “Era quasi un secondo padre per me”, dice il figlio di don Vito. Don Vito che non aveva alcuna paura a incontrare un super latitante ricercato: “Mi disse che Provenzano si muoveva liberamente grazie a degli accordi presi in passato. Era più prudente incontrarlo a casa perché tanto non lo cercava nessuno. Faceva parte di un accordo preso nel 1992 che rendeva Provenzano libero di muoversi. Mio padre, tra il maggio e il dicembre di quell’anno, mi disse che era un accordo preso con le Istituzioni”.
E siamo al cuore dell’accusa, i presunti accordi a cavallo delle stragi. Ciancimino jr divenne il postino della Trattativa. Dalle sue mani transitavano le comunicazioni da e per Provenzano. Non solo: anche le missive di Totò Riina e Matteo Messina Denaro, dei quali il padre aveva una pessima considerazione. Secondo don Vito, Riina era un “doppiogiochista, pupazzo, intellettualmente molto limitato, aggressivo. Mio padre lo riteneva molto stupido e lo faceva quasi apposta a farlo irritare. Ad esempio lo faceva aspettare mezz’ora in anticamera”. E neppure Messina Denaro era esente da critiche feroci: “Era cretino il padre – mi diceva – figurato il figlio”. Poi, racconta quella volta che “arrivò un pizzino in cui Messina Denaro chiedeva dei soldi per una messa a posto e mio padre mi disse sprezzante: ‘Fagli sapere che i soldi ce li stiamo mangiando a Roma a macchine e donne’”.
Don Vito volava alto. Pensava soprattutto agli affari. Come quando “investì dei soldi nelle attività di un imprenditore che stava costruendo delle case a Milano 2”. “Chi era?, gli chiede il pm Di Matteo: “Era Silvio Berlusconi. Siamo nel 1976-1977 e si decise di investire in questa attività milanese. C’erano pure i soldi di Bonura, Buscemi, Provenzano, Bontade”. Ci sono stati incontri fra il padre e Berlusconi? “Mi è stato detto da mio padre e mia madre che si conoscevano. Si sono incontrati a Milano. Mio padre non viaggiava tanto, si spostava solo per appuntamenti finalizzati. Erano incontri organizzati”. Organizzati da chi? “Da Bontade tramite Dell’Utri”. Anche questi sono temi già noti, affrontati anche nel processo all’ex senatore Dell’Utri. Tanto che il legale di Berlusconi, Nicolò Ghedini, scrive: “Per l’ennesima volta Massimo Ciancimino ha rilasciato dichiarazioni totalmente infondate e già smentite in modo radicale ed inoppugnabile nelle sedi processuali, in relazione a presunti tra suo padre e il Presidente Berlusconi. Per tali inveritiere affermazioni si procederà in ogni sede”.
Un lungo passaggio delle dichiarazioni di Ciacimino riguarda i rapporti fra il padre e i servizi di sicurezza. Rapporti che “iniziano dal 1970 fino agli ultimi giorni di vita. Venne chiamato dalla segreteria dei ministri Restivo e Ruffini per trovare un contatto di equilibrio con i suoi paesani. Era un momento in cui mio padre era stato sindaco. Mio padre veicolava le informazioni dal territorio”. Ed è in questo contesto che viene fuori la figura del signor Franco, sempre citato da Ciancimino jr e mai identificato: “C’era un tale Franco che faceva da postino, da collettore delle informazioni. Quando mio padre aveva necessità di veicolare con queste persone veniva sempre il signor Franco. Arrivava con la macchina blu, parlava con mio padre e se ne andava. Mio padre aveva un numero dove contattarlo. Lo facevo io da una cabina telefonica pubblica”.
Si torma in aula domani e si conosceranno i contenuti dei documenti che i pm hanno depositato stamani in udienza. Si tratterebbe di verbali di Ciancimino jr, non nuovi ma rivisti alla luce di episodi che fino ad ora non conosciamo. E il fascicolo del processo si ingrossa.
SOTTO LA DIRETTA DELL’UDIENZA
ore 9.50
Uno dei legali rinuncia al mandato
Il figlio di don Vito è imputato e teste chiave del dibattimento. La prima novità è l’assenza dell’avvocato Francesca Russo. Lo storico difensore di Massimo Ciancimino ha rinunciato al mandato difensivo. Massimo Ciancimino parla di un “normale venire meno del rapporto di fiducia”. Il legale precisa, invece, di avere rinunciato a tutti i mandati “per la non condivisione sia delle scelte difensive e della gestione del cliente”. Unico difensore resta l’avvocato Roberto D’Agostino. Nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo si rivede il pubblico delle grandi occasioni. C’è parecchia gente fuori in attesa di entrare nell’area riservata a chi vuole assistere al processo che si celebra davanti alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto. Presenti gli studenti di alcune scuole superiori.
ore 10
Riina sta meglio, partecipa al processo
Collegato in video conferenza dal carcere di Parma c’è anche Totò Riina. Il padrino corleonese, dunque, ha lasciato l’ospedale dove era ricoverato per motivi di salute. Soffriva di un’insufficienza renale. In aula c’è il pool di magistrati al completo: il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia.
ore 10.15
“Ero sempre con mio padre”
Inizia l’esame di Ciancimino. A porre le prime domande è il pm Di Matteo.”Sono sempre stato accanto a mio padre”, dice il testimone parlando dei periodi trascorsi dall’ex sindaco di Palermo al soggiorno obbligato in un paesino in provincia di Campobasso e poi durante la permanenza a Roma quando aveva il divieto di vivere in Sicilia. Ciamcimino fu poi arrestato dai carabinieri del Ros nell’ambito dell’inchiesta “mafia e appalti”. Alla fine del 1990 tornò in libertà e vi resto fino al 1992, quando, nel dicembre, torno in cella per il pericolo di fuga. Fra arresti in cella e ai domiciliari si arriva fino al 2002, anno della morte di Vito Ciancimino.
ore 10.25
“Una pizza con Provenzano”
“Mio padre ha conosciuto Bernardo Provenzano – racconta Ciancimino -. Anche io l’ho conosciuto. La sua era una presenza costante nella mia vita, veniva a casa nostra. Era quasi un secondo padre per me. Da giovane si presentava con il nome dell’ingegnere Lo Verde. Alla fine degli anni Settanta, accompagnavo mio padre dal barbiere. In uno di quegli appuntamenti ho visto in un giornale l’identikit di Provenzano, e ho preso contezza di chi fosse. Da una risposta anche pesante di mio padre ho avuto contezza della sua vera identità. ‘Papà ho visto la foto di Porvenzano, mi sembra il signor Lo Verde’. Mio padre si fermò per strada e mi mise in guardia: ‘Ricordati che da questa situazione non ti può salvare nessuno”. Ed ancora: “Tra il 1978 e il 1980 andavamo a mangiare la pizza con Provenzano a Baida e San Martino. C’erano anche i miei fratelli”.
ore 10.45
“Provenzano a casa nostra”
“Dal 1999 mio padre decise di aprirsi con me – racconta Ciancimino jr -. Qualche mese dopo, nel febbraio 2000, con un documento a sua firma mi ha affidato la gestione del suo patrimonio. Cambia l’atteggiamento nei miei confronti”. La domanda di Di Matteo è secco: “A parte le visite nella sua casa di via Sciuti, è stato testimone di altri incontri fra suo padre e Provenzano?”. Risposta: “Nel 1980-81 quando lo Stato dimostrò di volere alzare il livello delle indagini, decisero di non incontrarsi più a casa. Io lo accompagnavo agli appuntamenti. Gli incontri sono avvenuti fino al 2002 anche nella nostra casa di via San Sebastianello a Roma. Intorno al luglio del ’92 mio padre procurò a Provenzano un appuntamento medico per i suoi problemi di prostatite tumorale. Mio padre si è attivato per fissargli una visita con un medico romano”.
ore 10.50
“C’era un accordo: nessuno cercava Provenzano”
Ciancimino entra nel cuore dei presunti accordi fra rappresentanti delle istituzioni e Cosa nostra: “Chiedevo a mio padre se non avesse timore di incontrare un latitante e lui mi disse che Provenzano si muoveva liberamente grazie a degli accordi presi in passato. Era più prudente incontrarlo a casa perché tanto non lo cercava nessuno. Faceva parte di un accordo preso nel 1992 che rendeva Provenzano libero di muoversi. Aveva preso in mano la guida al posto di Riina per evitare gli omicidi. Mio padre, tra il maggio e il dicembre di quell’anno, mi disse che era un accordo preso con le Istituzioni”.
ore 11.15
“Io, postino di Provenzano”
“Mio padre mi utilizzava per mandare lettere e messaggi a Provenzano. C’era un imprenditore agricolo di Bagheria, Abbate, che ogni settimana portava frutta e verdura a casa mia e c’era sempre qualche busta dentro. So che è stato ammazzato e mio padre se n’è dispiaciuto. Mio padre apriva le buste con dei guanti di lattice e poi bruciava le lettere. Ho consegnato documenti e pizzini direttamente a Provenzano, anche nel periodo fra maggio e dicembre 1992. E’ il periodo delle stragi, erano iniziati dei rapporti con uomini delle istituzioni che erano informati della consegna Provenzano. La mia paura in quel periodo era che mi seguissero e arrestassero Provenzano e me”.
Ore 11.30
Una lettiga per Riina
Processo sospeso per quindici minuti per consentire a Totò Riina di sistemarsi su una lettiga nella sala del carcere di Parma, collegata in videoconferenza con Palermo.
11.45
“Messina Denaro, per mio padre era un cretino”
Il processo riprende e si parla anche di Matteo Messina Denaro. Ciancimino jr ricorda le parole pronunciate da don Vito: “Mi diceva, era cretino il padre, figurati il figlio”. Ricordo che una volta arrivò un pizzino in cui Messina Denaro chiedeva dei soldi per una messa a posto e mio padre mi disse sprezzante: ‘Fagli sapere che i soldi ce li stiamo mangiando a Roma a macchine e donne’”.
ore 12.20
“Per mio padre Riina era un pupazzo”
Prosegue il racconto di Ciancimino: “La stima di mio padre per Riina era minima, lo definiva doppiogiochista, pupazzo, intellettualmente molto limitato, aggressivo. Ho visto Riina incontrare mio padre nell’appartamento di via Sciuti, a Palermo. Un volta c’era pure lui a Bagheria ad un incontro assieme a Santapaola e Greco. C’erano motivi di contrasto. Mio padre mi raccontò poi, nel 2000, che c’erano stati screzi per i lavori in un palazzo di via Libertà. Mio padre lo riteneva molto stupido e lo faceva quasi apposta a farlo irritare. Ad esempio lo faceva aspettare mezz’ora in anticamera”.
ore 12.45
Mio padre in affari con Berlusconi
“Mio padre investì dei soldi nelle attività di un imprenditore che stava costruendo delle case a Milano 2”, spiega Ciancimino. “Chi era?, gli chiede il pm Di Matteo: “Era Silvio Berlusconi. Siamo nel 1976-1977 e si decise di investire in questa attività milanese. La conoscenza con questo soggetto era frutto anche dei rapporti con il costruttore Alamia che faceva parte della corrente politica di mio padre. C’erano pure i soldi di Bonura, Buscemi, Provenzano, Bontade”. Sa se ci sono stati incontri fra suo padre e Berlusconi? “Mi è stato detto da mio padre e mia madre che si conoscevano. Si sono incontrati a Milano. Mio padre non viaggiava tanto, si spostava solo per appuntamenti finalizzati. Erano incontri organizzati”. Organizzati da chi? “Da Bontade tramite Dell’Utri”
ore 13.30
“I contatti di mio padre con i servizi di sicurezza”
Un lungo passaggio delle dichiarazioni di Ciacimino, le ultime prima della fine dell’udienza, riguarda i rapporti fra il padre e i servizi di sicurezza. Rapporti che “iniziano dal 1970 fino agli ultimi giorni di vita. Venne chiamato dalla segreteria dei ministri Restivo e Ruffini per trovare un contatto di equilibrio con i suoi paesani. Era un momento in cui mio padre era stato sindaco. Mio padre veicolava le informazioni dal territorio”. Ed è in questo contesto che viene fuori la figura del signor Franco, sempre citato da Ciancimino jr e mai identificato: “C’era un tale Franco che faceva da postino, da collettore delle informazioni. Quando mio padre aveva necessità di veicolare con queste persone veniva sempre il signor Franco. Arrivava con la macchina blu, parlava con mio padre e se ne andava. Mio padre aveva un numero dove contattarlo. Lo facevo io da una cabina telefonica pubblica”.
Ed è grazie al signor Franco che don Vito Ciancimino avrebbe ricevuto notizie riservate: ” Mio padre era stato informato che da lì a poco ci sarebbe stata un’inchiesta sui nostri soldi e abbiamo trasferito dei capitali. Riceveva dossier su personaggi politici con la dicitura riservato. Erano intestati su carte del ministero dell”Interno. Li leggeva e poi se ne sbarazzava. Mi disse che gli erano serviti per avvisare suoi amici su possibili inchieste nei confronti di persone riconducibili a mio padre”.
E anche lo stesso Ciancimino jr avrebbe beneficiato di notizie riservate: “L’ultima volta che ho visto il signor Franco fu quando mi ha messo al corrente delle indagini che c’erano su di me, quando mi disse di sbarazzarmi di documentazione conservata a casa mia. Lo chiamato perché ero preoccupato. Sono strato iscritto nel registro degli indagato per 416 bis lo stesso giorno della morte di mio padre, Franco mi avvisò dicendomi di non preoccuparmi. Non era finalizzato a inchieste dirette nei miei confronti, ma ad una tutela nei miei confronti”.
Il processo è stato rinviato a domani per la prosecuzione dell’esame dell’imputato.