'Anche noi medici abbiamo pianto... Attenti, il Covid non è finito'

‘Anche noi medici abbiamo pianto… il Covid non è finito’

La dottoressa Tiziana Maniscalchi, primario del pronto soccorso, e la fine dell'emergenza.
COVID - L'INTERVISTA
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Dottoressa Maniscalchi, quando ha capito che il Covid era qui, ma davvero?
“Il 3 marzo del 2020. Ricordo che visitai un camionista che aveva mangiato nel suo ristorante preferito, al Nord. Lo avvertirono che la titolare aveva contratto il virus, anche lui risultava positivo. In seguito, è stato molto male, ma, per fortuna, ce l’ha fatta. Quello fu il il giorno in cui cominciammo a prendere consapevolezza”.

Tiziana Maniscalchi, primario del pronto soccorso Covid dell’ospedale ‘Cervello’ di Palermo, si è guadagnata sul campo la stima di pazienti e colleghi. Anche in un mondo esteso – e perciò complesso come tutti i mondi estesi – come la sanità, non si incontra mai qualcuno che ne parli in termini meno che affettuosi. Il Covid ha tolto qualcosa a tutti, a chi continua a vivere in trincea ancora di più. Ecco perché l’alternanza di speranza e perplessità sono ingredienti normali di questo cammino.

Com’è la situazione?
“Ci sono ancora tantissimi positivi che vengono in ospedale, con vicende cliniche diverse. Ci sono quelli che sono soltanto positivi al Covid, ma finiscono in ospedale per un’altra patologia. Ci sono i fragili, con altri problemi, anche vaccinati, che sviluppano la malattia grave da virus. Sono gli anziani e i soggetti pluripatologici, pure giovani. L’età è un fattore importante, comunque. E ci sono i non vaccinati che stanno malissimo, per quanto sia incredibile che ci siano non vaccinati”.

Cosa ne pensa della fine dell’emergenza?
“Che non siamo pronti per fare il salto di qualità e metterci alle spalle tutto, non ci sono le condizioni. Poi possiamo decidere di non chiamarla più emergenza e sono d’accordo. Dopo due anni non lo è più. Il problema è trovare un modo di gestire una situazione che potremmo definire ordinaria ma che non somiglia affatto al periodo precedente, quando il Covid non c’era. Comunque, appunto, l’emergenza è finita ed è ora che tutti si rimbocchino le maniche”.

Che significa?
“Nessuno, certamente, si è sottratto. Ma qualcuno ha dato di più. Ci sono persone sfiancate e stanche”.

Il suo punto di osservazione cosa riferisce?
“Che i numeri sono sempre importanti. Che le mascherine non vanno abbassate. E che i livelli di guardia devono restare alti. Le quarte dosi vanno somministrate ai fragili. Per fortuna, registriamo un dato. Tanti colleghi si contagiano, ma nessuno è grave”.

Ricorda gli inizi?
“E come potrei dimenticare? Ricordo che mi consultavo con un collega di Bergamo, mentre loro erano in piena prima ondata. Mi mandava messaggi di guerra, racconti terribili. Non c’era il vaccino, non c’erano terapie, non c’era niente. E poi si è ammalato un giovane collega del ‘Cervello’, neolaureato, e c’è caduto il mondo addosso. Abbiamo scoperto, sulla nostra pelle, che tutti eravamo esposti”.

Avete mai pianto?
“In molte occasioni. La sofferenza e la morte del malato di Covid sono durissime. Ci sei solo tu, il medico, l’infermiere… Non ci sono i familiari, non c’è nessuno. Quelle persone che se ne vanno ti guardano con occhi indimenticabili, come se tu fossi la loro unica famiglia. E, in quel momento, lo sei”.

Un dolore che continua.
“Vediamo tanti trapiantati che aspettavano l’organo da una vita. L’hanno ricevuto e si sono ammalati, dopo anni di attesa, speranza e dolore. Non si può restare insensibili. Anche loro sono la nostra famiglia”.


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