Molti anni fa, per il cronista che si avvicinava assistito dalle raccomandazioni di chi la sapeva lunga – stai attento, occhio al portafoglio, non fidarti – il campo Rom della Favorita si presentava come un miscuglio di contraddizioni. Al primo ingresso, un ragazzino con gli occhi da uomo volle vedere il telefonino dell’ospite. Appurata la fisionomia antelucana del suddetto (“eh, ma è vecchio”) lo riconsegnò con un sorriso tra il divertito e l’indignato.
Il leader del campo era un magnifico musicista. Qualche tempo dopo si sarebbe trasferito al Nord per tentare la sorte con un’orchestrina. Dopo le prime diffidenze, al nuovo arrivato fu permesso di entrare nella casa del capo. Fuori, una baracca. Dentro, un appartamento in miniatura, con tappeti, suppellettili e vestiti colorati da indossare per le feste. Un pomeriggio, mentre si chiacchierava su alcuni divani spelacchiati, un gatto schizzò tra le gambe dei presenti; invece era un topo che forse aveva mangiato il gatto. Tutti risero.
Era normale per quella gente. Era normale che topi grossi come gatti corressero tra i piedi. Era normale lavarsi con l’acqua fredda dei silos e lavare i bambini che, faticosamente, andando a scuola, venivano indirizzati sulla strada della normalità. Era normale fare i conti con l’odio, con la discriminazione. Alcuni volevano imparare qualcosa di meglio dell’accattonaggio. Altri si adagiavano sulla durezza dell’unico stile di vita che li marchia agli occhi del prossimo. Era come se dicessero: ci volete zingari? Bene, noi siamo gli zingari. Non è semplice militare da cittadini, da palermitani, quando il tuo bagno è un silos all’aperto.
Non saprei dire quanti fossero i buoni e quanti i cattivi, nella mia esperienza di cronista di molti anni fa; quanti identici a un luogo comune, quanti in risalita. So che, da quando sono entrato in quel campo, ho cominciato davvero a considerare i Rom persone singole, persone e niente altro, a dispetto delle incrostazioni che non ammettiamo mai.
Ma so pure che ai Rom, a Palermo come altrove, difficilmente è consentito di essere semplicemente persone. Un po’ come capitava ai siciliani nelle loro drammatiche emigrazioni. I Rom sperimentano la condanna preventiva o l’assoluzione indifferenziata. Nelle chiacchiere con cui la brava gente si distingue, sono sempre carnefici o vittime. Quasi nessuno di loro viene chiamato col nome proprio da chi passa accanto per diffondere il cipiglio del pregiudizio o la bontà a carico degli altri.
C’erano, per fortuna, e ci sono palermitani che sono andati a vedere con i loro occhi e con il loro cuore. C’era Adriana, persona incantevole, che prestava la sua opera. C’era un assistente sociale con gli occhiali a mezz’asta e i baffi che, in pratica, era un abitante aggiunto. C’è Giulia che ha scritto su Facebook: “La cifra della mia esperienza come volontaria al campo della Favorita è stata la solitudine. Avevo ventisei anni la prima volta che sono entrata; ne ho quarantuno e posso contare sulle dita di una mano quelli che hanno lasciato un’impronta. Quasi tutte sono donne, alcune purtroppo non ci sono più”.
Tutto questo ormai è passato, con una sforbiciata definitiva ai volti, alle biografie, alle generosità e alle meschinità. Ora che anche il campo Rom di Palermo non c’è più, riusciremo a considerare quelli che lo abitavano persone, nient’altro che persone?