Viaggio nelle serre dell'uva|Tra caporalato e sfruttamento - Live Sicilia

Viaggio nelle serre dell’uva|Tra caporalato e sfruttamento

Il reportage a Mazzarrone.

MAZZARRONE – Lo sgrappolamento è un’arte certosina. Ad ogni grappolo vanno tolti gli acini meno sviluppati. Sottraggono linfa al frutto diminuendo la dimensione e la bellezza del grappolo stesso. Grappolo a grappolo, chilo su chilo, per centinai di ettari. La giornata dell’operaio agricolo inizia alle 4 di mattina. Dopo la sveglia, svelti, si raggiunge il punto di ritrovo con gli altri operai. Cinque anche sei in auto, la spesa della benzina si divide.

Un costo, quello della trasferta che sostenuto da soli potrebbe rendere antieconomica una giornata fra i campi. Il caposquadra divide i filari, si inizia in silenzio, la giornata sarà lunga e il sole che inizia a farsi sempre più caldo, asciugherà energie e prosciugherà la voglia di parlare. Fine giornata lavorativa: ore quattordici, a meno di problemi improrogabili, ci sono, ci dicono, quasi tutti i giorni. Mazzarrone, 4077 abitanti, di quella che nel recente passato fu la frazione agricola di Caltagirone, insieme a Granieri da lavoro, compreso l’indotto a quasi 20.000 persone. L’oro nero qui è l’uva da tavola. All’ingresso delle serre, telate e quindi ventilate, sotto il sole del mezzogiorno si percepiscono quasi 55 gradi.

Lavorare anche con solo indosso una maglietta, ci dicono, è quasi impossibile. Zappa o forbice nelle mani, bottiglia d’acqua accanto, gli operai si aggirano fra le piante, tutte uguali, che si ripetono in loop quasi all’infinito. Il sogno della sua vita erano i campi, quelli da calcio e con l’erba tagliata fresca dove correre dietro ad un pallone. Hamil, che di anni ne ha trascorsi in Italia già trenta, giunto in Sicilia sognava la seria A. Negli anni di Batitusta, Bergomi, Baresi, Del Piero, Inzaghi, delle notti magiche dei mondiali, Hamil che il pallone dovette ben presto mettere di lato, abbracciò forbici e zappa per potersi mantenere. Ha moglie e figli, rinnova il permesso di soggiorno ogni due anni e di essere un “azzurro” vorrebbe trovarlo scritto sul suo documento di riconoscimento. Metà tunisino ma con l’accento comisano, adesso chiede che gli venga riconosciuta la dignità di cittadino italiano, con tutti i diritti e doveri annessi.

La sua è la storia di tanti operai stranieri che affollano i campi del calatino. Di italiani se ne vedono pochi, la paga è spesso bassa, ai limiti dello sfruttamento e quei pochi italiani che lavorano ancora nelle campagne sono cinquantenni conosciuti per la loro esperienza e professionalità. Gli altri operai, sembra, facciano numero e forza lavoro, numeri da impiegare perché si completi il lavoro, a qualsiasi costo ma non a qualsiasi prezzo. Tunisini, Algerini, Rumeni, Albanesi hanno preso casa in questi piccoli comuni. Sono la forza lavoro “low price” della grande macchina produttiva delle campagne calatine.  Ci raccontano di aziende dove il lavoratore straniero è pagato dieci euro al giorno, prezzo di poco superiore (quindici euro) viene proposto agli italici padri di famiglia che spesso rifiutano a meno di essere costretti per bisogno ad accettare la paga. Tutti lavorano sperando di poter cambiare occupazione. C’è chi così fa da 40 anni. L’unico italiano sotto quelle ombrature ci dice che lo “Stato” può far tutto per sistemare le cose ma non fa niente, per lui è connivente e siccome nessuno protesta nessuno farà mai nulla per i lavoratori del settore agricolo.

Il problema della concorrenza con le altre nazioni è noto a tutti. Stessa cosa per le imposizioni sui prodotti fitosanitari che in Italia sono spesso vietati ma che usati copiosamente sulla frutta che arriva dall’estero arriva dritto sulle tavole dei consumatori allo stesso prezzo finale del prodotto “sano e controllato” che si produce lungo tutto lo stivale. In una di queste aziende, troviamo fra i filari il titolare intento a controllare la produttività della sua squadra. L’appezzamento, tutto coltivato ad uva, è di quaranta ettari. Incalzato dalle domande ci prende il volantino di un supermercato dall’auto. La “sua” uva è venduta in “offerta” a 2,99€ al Kg in una nota catena di supermercati nazionali. A lui la grande distribuzione organizzata l’ha pagata trenta centesimi. Prendere o lasciare. Dove il lasciare spesso significa lasciar marcire sulla pianta. Gli italiani non vogliono più lavorare nei campi perché preferiscono lavori meno pesanti, i proprietari non coprono con la vendita dell’uva il costo di un operaio al “giusto prezzo”. La filiera corta dello sfruttamento inizia nei campi, sotto il sole a 40 gradi e termina su anonimi camion che prelevano la frutta incassettata alla volta delle grandi catene di supermercati.

Hamil sognava di diventare ricco e famoso, Michele il titolare, di arrivare con l’elicottero nella sua proprietà. Entrambi adesso aspettano il fine settimana. L’uno per la paga, l’altro per i bonifici. Detratte le spese, rimane quel poco che basta per qualche sfizio. Hamil comprerà, se riesce, un paio di scarpe di marca. Michele a fine stagione comprerà un nuovo Suv. Lo status sociale, con i suoi clichè classisti, affida al consumismo e all’apparenza la risposta alla domanda di cambiamento radicale del settore a cui nessuno vuole dare risposta. Nel frattempo, anche quest’anno è quasi impossibile trovare nel calatino qualcuno che venda l’uva da tavola di Mazzarrone. Nei grandi mercati della zona arriva quasi esclusivamente quella straniera o di “scarto” cioè la produzione meno pregiata. Impossibile anche solo paragonarne gusto e bellezza. Anche a peso d’oro, qui quest’uva non “sa da vendere”, misteri della G.d.o. 


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