C’era una volta il mandante della strage di via D’Amelio. Era uno che, insieme con altri – portatori di altri interessi – aveva deciso anche l’attentato sull’autostrada nei pressi di Capaci. Dopo le stragi aveva vissuto qualche anno di serenità; infatti lo sguardo degli inquirenti non si era mai rivolto nella sua direzione perché era un insospettabile.
Poi le cose iniziarono a mutare e l’orizzonte delle indagini fu sempre più denso di quella nuvolaglia di parole ricorrenti che moltiplicavano l’interesse a cercare i mandanti seguendo un tema dominante: perché è stato ucciso Borsellino? Fu così che il mandante decise che occorreva una risposta, tale che fosse per lui e per sempre rassicurante. Certo, occorreva una risposta autorevole e, soprattutto, che non fosse diretta, ma la conseguenza di un altro interesse giudiziario, una sorta di via traversa, quella che taluno chiamerebbe depistaggio.
Come dire: parlo di un fatto per definirne un altro. Il mandante, mente raffinatissima, probabilmente non svelò ad alcuno il suo piano, ma convinse i suoi amici ed estimatori a promuovere quell’azione penale che avremmo conosciuto come “trattativa Stato-mafia”. E dalle parti della Sicilia ciò si traduce nell’attivazione del 416bis e cose simili. La prima accusa nei confronti degli indagati per la “trattativa”, infatti fu, con empito donchisciottesco, di mafia; accusa suggestiva e rastrello del consenso di quei molti che, sostenendo qualunque accusa di mafia, anche palesemente infondata, si sentono titolari del bene e del meglio. Insigniti.
Poi arrivarono cavalieri più esperti. Avevano intuito che quell’accusa di mafia sarebbe crollata prima che la vicenda entrasse in aula e l’addebito divenne altra cosa: non mafia, ma “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Insomma, un reato sconosciuto ai più e certamente fumoso, ottimo per frastornare la pubblica opinione. Nel frattempo, come in ogni “C’era una volta” che meriti attenzione, il Vecchio Saggio, eremita su una montagna vicina, conosciuto sia come scienziato del diritto di fama e stima nazionali ed oltre che come maestro di molti dei magistrati che si erano avventurati nell’accusa, aveva bocciato con lunghe e sapienti argomentazioni tutto l’impianto accusatorio.
Ma al mandante e ai – da lui suggestionati – suoi ignari estimatori, la cosa non importò. “Tiremm innanz” si dissero patriotticamente e così fu. Nacque il processo e l’interpretazione principale dell’Accusa fu affidata ad un pm dall’antropologia rassicurante, seducente, certamente mai sospettabile d’essere complice di operazioni avventuristiche. Insomma, un pm veramente innocente, per natura. E la scelta fu fruttuosa. Piacque molto e suscitò nei professionisti dell’informazione cartacea e televisiva un sentimento di protezione e di valorizzazione, unico a memoria di molti. Così si formò la squadra di scultori e scalpellini – forse non tutti realmente convinti – che eresse giorno dopo giorno il monumento all’eroe. E così anche quel processo, nato piccolo piccolo, andò crescendo agli occhi di tanti per importanza e credibilità.
In verità il mandante ebbe un pugno nello stomaco quando apprese che la Corte d’assise di Caltanissetta, l’unica competente ad esprimersi sulla morte di Paolo Borsellino, affermò che questo eroe (senza scultori né scalpellini) era caduto sul fronte del dossier mafia-appalti, quello che a Palermo sarebbe stato archiviato dopo la strage di via D’Amelio e sui cui Borsellino stava, di propria iniziativa, solitariamente studiando.
La Cassazione ha confermato questa sentenza. Ma quel pugno nello stomaco fu ampiamente ristorato quando la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Palermo, chiamata a giudicare sulla “trattativa” e non sulla morte di Borsellino, sentì il dovere di esprimersi anche su questa e affermò che la strage del 19 luglio 1992 era avvenuta a protezione della prosecuzione della “trattativa”, altrimenti e sicuramente interrotta dal procuratore palermitano.
In appello, la Corte d’assise di Palermo, lo sappiamo tutti, ha assolto gli imputati; e il mandante della strage di via D’Amelio – insieme con i portatori di interessi analoghi – ha perso il paracqua. Il cielo per lui è plumbeo e, salvo il diverso avviso della Cassazione, ora è tornato a temere che, come in tanti speriamo, rimanga prima o poi fottuto.